«Consideriamo la novità una buona notizia, la precarietà un valore, l’instabilità un imperativo, l’ibridezza una fonte di ricchezza», scrive Jacques Attali in Trattato del labirinto (Spirali, 2003). Precarietà e incertezza, sono ormai parole chiave della condizione umana, in ogni parte del globo, ma soprattutto – ci ricorda Zygmut Bauman – in quella più sviluppata e ricca del pianeta, di cui il Giappone è indiscutibilmente parte, e dove il cambiamento nella logica del lavoro, progressivamente radicatosi nell’arco dei due decenni perduti dallo scoppio della bolla economica dei primi anni Novanta al post-Fukushima, si è ormai insidiato in ogni forma di relazionalità quotidiana.
Le statistiche raccontano che oggi un terzo dei giapponesi vive solo, e termini quali Neet (not in education, employment, or training) e hikikomori (ritiro sociale) indicano fenomeni giovanili diffusi. Muen shakai, società senza rapporti reciproci, è il nuovo slogan lanciato dai media per definire la dilagante precarietà sociale, e proprio l’assenza di relazioni è il nucleo attorno al quale si sviluppa La ragazza del convenience store di Murata Sayaka (traduzione di Gianluca Coci, e/o, pp. 176, euro 15,00) un caso letterario, con oltre seicentomila copie vendute in Giappone e un premio prestigioso come l’Akutagawa conquistato nel 2016.

In uno stile che riesce a essere lucido e al tempo stesso straniante senza perdere una freschezza a tratti quasi naïf, racconta le giornate di Keiko Furukura, trentasei anni, single, un lavoro part-time in uno dei tanti konbini (convenience store) che punteggiano l’area metropolitana di Tokyo. Completamente priva di empatia, sia nei confronti degli estranei che dei famigliari, Keiko osserva il comportamento umano come un mistero impenetrabile, e le relazioni sono un gioco di cui non riesce ad afferrare le regole, al quale non riesce a partecipare se non imitando mosse ed espressioni che mantengono tuttavia intatta la loro opacità. Incerta nel rapporto con la sorella, con le amiche di lei, con il nipotino in arrivo, Kekiko si sforza di apparire normale mettendo a nudo con crudele precisione l’ipocrisia di norme e strutture sociali ormai stantie, e vuote.

Solo in «quella scatola di vetro trasparente, quella specie di acquario freddo e asettico» che è lo Smile Mart, vicino alla anonima stazione di Nisshokucho, occupata in un lavoro che appare inaccettabile per una donna adulta, estromessa dalle tappe obbligate del matrimonio e della maternità, Keiko trova il proprio ubi consistam e i propri gesti, al ritmo scandito dalla musica del konbini, una miriade di suoni e rumori che le sue orecchie finalmente riconoscono.

La critica è concorde nel definire la produzione post-Fukushima letteratura della precarietà, fatta di una scrittura che si confronta con la perdita delle certezze, con lo smarrimento e la solitudine che segnano le generazioni cresciute nei decenni perduti. La ragazza del convenience store rientra appieno in questa definizione, ma si discosta dal mainstream perché rende la precarietà un’ancora di salvezza, e fa sì che Keiko riesca finalmente ad accettarsi nella sconnessione da qualunque norma e relazione sociali: paradossalmente, è solo indossando quella che a prima vista appare come la più fissa delle maschere, la divisa da commessa part-time in uno dei tanti, identici punti vendita di una qualsiasi catena di konbini, che la precarietà diventa per lei, come vuole Attali, una fonte di ricchezza. «Contemplo la mia sagoma riflessa nella vetrina del negozio dal quale sono appena uscita. Quelle braccia e quelle gambe sono concepite solo e unicamente per il mondo del konbini: nell’attimo stesso in cui me ne rendo conto la mia vita acquisisce per la prima volta un senso compiuto».