Altro che palloncini colorati e happy meal per i più piccini: prima della raccolta firme della Cgil – e della conseguente legge per annullare il referendum – nei fast food italiani a fare festa erano soprattutto i voucher. Secondo i dati in possesso della Filcams Cgil, «interi Burger King sono stati avviati con i soli ticket e senza neanche un contratto», mentre la McDonald’s nel 2016 si è piazzata ai primi posti tra le aziende utilizzatrici dei famigerati buoni lavoro. Ma non basta, perché i 20 mila addetti delle paninerie nostrane devono vedersela anche con part-time involontari, basse paghe e orari ultra flessibili, tanto che ieri hanno aderito con sit-in a Roma e Milano alla giornata mondiale di protesta dei fast food.

McDonald’s e Burger King hanno storie diverse in Italia – la seconda catena è di diffusione più recente – ma entrambe sono accomunate dall’assenza di un contratto integrativo, come spiega Luca De Zolt, della Filcams Cgil nazionale: «Le due multinazionali aderiscono al contratto nazionale di Fipe Confcommercio – afferma il sindacalista – ma al contrario ad esempio di Autogrill e di altre catene non hanno un accordo di secondo livello».

Burger King ha 150 fast food in Italia, una ventina dei quali sono a gestione diretta, il resto tutti in franchising. «In passato – spiega De Zolt – i rapporti sindacali erano molto più complicati, perché tutto faceva capo alla company europea. Da due anni però hanno insediato una direzione in Italia, e noi stiamo insistendo perché si accordino per un integrativo. Abbiamo fatto solo un incontro prima della nuova legge sui voucher, adesso dobbiamo rivederli».

Sì, proprio i voucher: sono stati una sorta di «pilastro» per la diffusione di Burger King nel nostro Paese. «Abbiamo visto che le aperture, sia dei locali diretti che di quelli in franchising – spiega il sindacalista della Filcams Cgil – avvenivano con il 100% dei lavoratori in voucher, senza neanche un dipendente. Poi via via alcuni vengono stabilizzati, ma un 20-40% di ore, a seconda delle esigenze di organizzazione dell’azienda, resta retribuito con i ticket».

E con i nuovi voucher? «Per il momento riteniamo che stiano utilizzando ancora i vecchi, di cui sicuramente hanno fatto scorta prima della messa al bando, visto che sono utilizzabili fino al 31 dicembre 2017 – spiega De Zolt – Non a caso, all’ultimo incontro che abbiamo avuto, l’azienda aveva sondato se fossimo disposti a ragionare sul lavoro a chiamata».

Non basta, perché problemi si sono avuti anche con alcuni concessionari del marchio, specie nel Lazio: ai Castelli, vicino Roma, un franchisee di Burger King è finito sotto indagine giudiziaria, con conseguente chiusura di alcuni punti vendita. «Abbiamo registrato anche casi di cattivi pagatori, o di procedure fallimentari difficili da gestire – aggiunge il sindacalista della Filcams Cgil – e tutto questo perché non bastano dei semplici accordi commerciali per assicurare che il tuo brand finisca in buone mani: se non controlli con rigore, poi a pagare sono inevitabilmente i lavoratori».

McDonald’s ha se non altro un diverso sistema di gestione dei franchisee, più rodato, e spesso acquisisce i locali per poi attivare una cessione di ramo d’azienda, in modo da controllarli più da vicino. Anche per la multinazionale degli archi dorati però il ricorso ai voucher è stato molto alto, seppure inferiore – in percentuale – a quello di Burger King.

I problemi dei lavoratori McDonald’s – la maggior parte dei quali è comunque da anni contrattualizzato – sono soprattutto i part-time involontari, l’estrema flessibilità degli orari e le paghe, che in un sistema così costruito restano inevitabilmente troppo basse per vivere: «Si va dai contratti weekend ai part time dalle 16 alle 24 ore – spiega De Zolt della Filcams Cgil – Visto l’alto turn over, sono pochi a essere rimasti senza clausole elastiche flessibili, con i vecchi contratti, mentre sulla gran parte dei dipendenti viene esercitata una forte pressione per averli al lavoro solo negli orari in cui servono, per i picchi. Questo accade soprattutto nei locali più piccoli e meno sindacalizzati, dove è anche più difficile vigilare su salute e sicurezza. Con part-time così, spesso i salari non superano i 550 euro mensili: che vanno pure bene se sei all’inizio, ma quando poi diventa il lavoro della tua vita è impossibile arrivare a fine mese».