Mario Luzi fu una delle espressioni più alte dell’ermetismo che riporta incessantemente a Montale. In lui è costante la ricerca di un perché esistenziale, del motivo che ci vuole vivi e disancorati da una ragione superiore. «Avevamo studiato per l’aldilà/un fischio, un segno di riconoscimento./Mi provo a modularlo nella speranza/che tutti siamo già morti senza saperlo» dice Montale ma Luzi si fa più disperante nella sua speculazione continua di un ‘raccordo’ che dia un senso alla nostra presenza nel mondo: «Ma tu continua e perditi, vita mia,/per le rosse città dei cani afosi/convessi sopra i fiumi arsi dal vento.» e, ancora: «Mi trovo qui a questa età che sai/né giovane né vecchio, attendo, guardo/questa vicissitudine sospesa;/non so più quel che volli o mi fu imposto…».

Egli fu credente ma non osservante e gli fu naturale, anche se ostico, ricercare una ragione della sua fede. Il nodo da sciogliere era – e forse rimane- se la Fede fosse ancora ‘utile’ senza resurrezione. Meta che costituisce, per il laico, la definizione di una vita vissuta con un senso e per il credente l’aspirazione ad un premio che questa vita perpetui in un’altra dimensione.

Il credo di Luzi trova linfa nei Pensieri di Pascal, attraverso una lettura critica del Manzoni aderisce ‘intimamente’ al cattolicesimo di Mauriac. Vogliamo dire che non fa manifesti, né attestati di appartenenza. Il capolavoro di Pascal è fonte di orientamento per molti ma l’equilibrio dialettico del Nobel francese è quello al quale Luzi intimamente si rifà.

Luzi scrive un poemetto, su commissione, in occasione della Pasqua del ’99. Il poeta avverte il peso di tanta committenza e scrive un’opera complessa divisa in: Introduzione – Via Crucis (le 14 stazioni)- Coro e preghiera che verrà declamato al Colosseo in occasione della via Crucis. «È bella e terribile la terra,/io ci sono nato quasi di nascosto/… mi sono affezionato alle sue strade…/Padre, non giudicarlo/questo mio parlarti umano quasi delirante/accoglilo come un desiderio d’amore./Mi afferrano, mi alzano alla croce piantata sulla collina,/ahi Padre, mi inchiodano le mani e i piedi./Qui termina veramente il mio cammino».

Ora il Teatro Comunale di Ferrara riprende in mano il poemetto. Interpreti d’eccezione del progetto sono Moni Ovadia e Michele Placido, rispettivamente Direttore e Presidente del teatro, di per sé stessi garanzia di riuscita vista la passione politica e artistica che accomuna i due. Il progetto parte da lontano, da prima della pandemia, quando si era pensato ad un lavoro itinerante che partisse certo dal teatro ma che si snodasse poi lungo le strade di Ferrara. Il covid ha segnato la fine del progetto e ha fatto ripiegare i due mentori, Placido e Ovadia, verso un lavoro multimediale, fatto di teatro e di cinema.

La Passione si offre come paradigmatica dei teatri chiusi, un Teatro che sembra spegnersi, con il palcoscenico negletto e pieno di polvere. Ma la Passione non ricalca forse quella che ciascuno di noi vive, credente o no, nei marosi della quotidianità? La novità, rispetto al testo di Luzi, è che il Cristo è un matto che si crede tale e che si porta neghittoso sulle tavole del palcoscenico alla ricerca di una identità, in cerca di perché quel luogo divenuto un antro, il Teatro appunto, non è più un posto ospitale dove si avvicendano storie e conflitti, dove si inscenano farsa e dramma, è divenuto per il personaggio il vero Golgota, un locus solus dove tutto non accade più o dove tutto può ancora accadere, nella speranza che il ‘miracolo’ del chiacchiericcio scenico torni a rinnovarsi, nella speranza che i burocrati pensando al nostro bene realizzino che è molto più pericoloso un mezzo nell’ora di punta che un teatro, magari riempito a metà ma dove si rinnovi ogni sera la rappresentazione scenica di una Passione degli umani che con la quotidianità debbono misurarsi.

Una croce conficcata sul terreno ci ricorda il recente dipinto di Ennio Calabria e, a monte, quello di Dalì: lì il legno era immanente, aereo, dava il senso di una salvatio qui è terreno, albero senza ombra in una terra di naufraghi. L’escamotage è plastica: una croce dove, alla fine, dovrà salire il Cristo posta di fronte ad una platea vuota, come se quegli spettatori, assenti per i motivi che sappiamo, fossero indifferenti alla sorte del Salvatore e, nello specifico, del Teatro. Indifferenza dell’uomo verso l’altrui sofferenza, la diffidenza dell’altro da sé tale è il Cristo che si è fatto profeta e re e ‘secondo la legge romana questo andava contro il Senato’. La rilettura della Passione fatta da Ovadia e Placido cuce un ordito laico, partire da quella per arrivare a decodificare una realtà dove il Cristo è divenuto solo un simbolo o una promessa non mantenuta.

Insieme a Ovadia e Placido che leggono brani dell’opera di Luzi e alcuni Salmi della Bibbia, Daniela Scarlatti con la sua traduzione in dialetto trentino dello Stabat mater, Sara Alzetta e Vito Lopriore nei panni di un inconsapevole Cristo. Riprende vita qui il brano Maria alla Croce di Dario Fo e Franca Rame.
Il film sarà visibile sul canale Youtube del Teatro fino al 5 compreso.