«Scusa se non parlo bene la vostra lingua: ho vissuto due anni Italia, ma sempre isolato, in piccoli paesi, senza possibilità di lavorare». Mohammed si sbaglia: con l’italiano se la cava bene, e riesce a raccontarci il suo peregrinare da Lampedusa fino a Settimo Torinese. Ultima tappa di un viaggio nel nostro Paese che lo ha portato a vivere per otto mesi a Prato Nevoso, località sciistica della provincia di Cuneo: una frazione di Frabosa Sottana, comune di un migliaio di anime.
Originario del Mali, 23 anni, ora è a Berlino, dove vive da quando il governo italiano ha dichiarato cessata la cosiddetta «emergenza Nordafrica», dando a tutti quelli come lui cinquecento euro e una pacca sulla spalla: «ora arrangiatevi». Fuori dai nostri confini. «Ci è stato detto: andate nel nord Europa, là troverete lavoro, mentre qua in Italia c’è crisi», riferisce Mohammed. Che ha speso metà della somma ricevuta per andare in treno da Torino a Berlino: arrivato nella capitale tedesca, i duecentocinquanta euro che gli restavano in tasca erano tutto quello che possedeva. «Ho perso tutti i miei risparmi per la guerra in Libia, dove vivevo e lavoravo». Quello che ora vorrebbe fare qua in Germania, come qualunque persona «normale».

«Tornatevene in Italia»
Le norme in vigore, tuttavia, non glielo consentono. Né Mohammed né nessun altro migrante che è entrato in Europa via Lampedusa e poi ha lasciato l’Italia può lavorare legalmente: l’unica cosa che gli è concessa è vivere «liberamente» da turista, aspettando una risposta dalle autorità competenti. Che sarà, se la situazione non cambia: «tornatene in Italia». E cioè, lo stato in cui ha fatto la prima richiesta di asilo. Ma è quello stesso Paese che gli aveva cortesemente suggerito di andare a cercar fortuna altrove, usando il destino di persone come lui quale mezzo di pressione nei confronti dei soci europei, come la Germania, «insensibili» al problema degli sbarchi sulle coste siciliane.
«Il nostro governo ha preso per i fondelli queste persone in maniera vergognosa»: Claudio Feliziani non ha dubbi. Italiano residente a Berlino, supporta da tempo le lotte dei migranti in Germania, anche attraverso il suo lavoro di documentarista. Ha conosciuto Mohammed in Oranienplatz, la piazza della capitale tedesca dove decine di persone da mesi vivono accampate in tende. L’analogia con la madrilena Puerta del Sol o Zuccotti Park a New York vale a metà. Qui la gente dorme perché non ha un altro posto dove andare, ma in comune con le piazze degli indignados e di occupy c’è l’impegno politico: la determinazione nell’opporsi alle ingiustizie di una condizione lesiva della dignità umana.
Claudio e Mohammed sono stati tra i più attivi partecipanti al workshop sulle lotte dei profughi nell’ambito del festival contro il razzismo tenutosi a Berlino nel mese di agosto. Tre giorni di incontri serviti a «fare il punto» sui numerosi fronti aperti nella battaglia contro la discriminazione in Germania. C’è la protesta dei «profughi di Lampedusa», disseminati dalla Baviera sino ad Amburgo, dove da mesi 80 migranti vivono in una chiesa evangelica (la St.-Pauli-Kirche). Ci sono gli ospiti dei centri di raccolta per profughi, anche loro in lotta. E l’elenco potrebbe continuare. «Non mancano le contraddizioni all’interno del movimento dei migranti, fra quelli di Lampedusa e gli altri», affermano concordi Claudio e Mohammed: ad esempio, tra chi è interessato al riconoscimento individuale dello status di rifugiato e chi, come i «lampedusani», è alla ricerca di soluzioni collettive.
Come sempre, il problema è unire. Riuscire a farlo superando le differenze, che mai come in questo caso sono create ad arte da normative in grado di moltiplicare le caselle dove mettere ciascun migrante. «Ad Amburgo – riferisce Claudio – si è trovata una linea comune fra i circa 300 stranieri in lotta che vengono da Lampedusa: chiedono al governo del Land di applicare l’articolo 23 della legge federale sulla residenza degli immigrati (Aufenthaltsgesetz). È una norma che consente alle amministrazioni di concedere per speciali ragioni umanitarie il permesso di soggiorno a gruppi di persone in particolare stato di necessità». Sino ad ora, però, il governo socialdemocratico della città-stato amburghese (la metropoli sull’Elba è un Land a sé, come Berlino e Brema), ha sempre risposto picche, sostenendo che la situazione potrà normalizzarsi attraverso le procedure consuete. Tradotto: i migranti entrati in Europa dall’Italia possono scordarsi di restare a lavorare ad Amburgo: le leggi non lo consentono.

Asilo, la trappola della Ue
La vita di queste persone è determinata da un regolamento dell’Unione europea, conosciuto come Dublino II, in base al quale il Paese competente ad esaminare la richiesta di asilo è il primo nel quale il migrante mette piede. Una volta ottenuto il permesso di restare, la persona può lavorare, ma solo in quel Paese: per il profugo non valgono le regole che valgono per ogni cittadino Ue. «Ma io in Italia non voglio tornarci: lavoravo, poi mi hanno bloccato il contratto, non ho capito perché. E così me ne sono andato», ci dice Ahmed, ventottenne nigeriano, sbarcato a Lampedusa e poi finito a Tricase in provincia di Lecce, dove ha vissuto per due anni. È a Berlino da un mese. Lo incontriamo nella tenda adibita a info-point del campo di Oranienplatz. «Io ho ottenuto asilo nel vostro Paese, ma ora voglio stare in Germania, dove ci sono più opportunità. Il mio problema è che non posso fare niente, e quindi non ho la possibilità di pagarmi una casa».
Di fianco ad Ahmed c’è Lisa, studentessa di 21 anni, che si dedica a insegnare il tedesco ai migranti in lotta. «Perché lo faccio? I rifugiati nella nostra società non vengono trattati come esseri umani. Io sono qua perché voglio che in Germania tutte le persone siano benvenute». L’obiettivo è influenzare la politica: «Finora abbiamo ricevuto un grande appoggio dalla Linke e dai Grünen. Questo campo sarebbe stato già sgomberato se non ci fosse la copertura del governo del municipio di Friedrichshain-Kreuzberg (uno dei dodici in cui è divisa la capitale tedesca), retto proprio dai Verdi: la presidente del municipio, Monika Herrmann, passa spesso a trovarci. Ovviamente il discorso cambia per il governo federale: lì ci sono democristiani e liberali, che mi sembrano del tutto insensibili al destino di queste persone. Anche se, dal mio punto di vista, non potranno continuare a fare finta di niente: la pressione su di loro sta crescendo».
C’è da sperare che Lisa abbia ragione, ma i segnali non sono incoraggianti. Il ministro degli interni, Hans-Peter Friedrich, è un «duro». Esponente della Csu, il partito-fratello della Cdu in Baviera, è uno dei membri più conservatori dell’esecutivo, e non perde occasione per lanciare allarmi sull’aumento del numero di persone in cerca di rifugio in Germania. L’allerta sull’invasione dei richiedenti asilo si accompagna alle dichiarazioni in cui afferma di «comprendere» le preoccupazioni di quei cittadini tedeschi che si trovano a vivere nello stesso quartiere in cui sorge un centro di accoglienza. Non un accampamento «irregolare» come quello della piazza berlinese, ma i centri di raccolta ufficiali. Siamo in campagna elettorale, per giunta in Baviera si vota anche per il parlamento regionale, e certi temi «non vanno lasciati all’estrema destra». Un ritornello già sentito, questo. Che non lascia presagire nulla di buono.

Il contagio dell’intolleranza
Esiste un precedente inquietante, infatti, nella recente storia tedesca. Nei primi anni Novanta, la Germania appena riunificata fu investita di un afflusso di profughi, provenienti soprattutto dall’Europa orientale e dai Balcani, decisamente più ingente che nel passato: nel 1992 la quota raggiunta fu di 430mila, quando nel 1987 la Germania ovest ne accoglieva circa 50mila. I movimenti neonazisti, cresciuti nel brodo di coltura del disagio sociale dell’ex Repubblica democratica (Ddr), si resero protagonisti di numerosi assalti alle residenze per stranieri, il più clamoroso dei quali fu quello dell’agosto ’92 a Rostock. Nessuno morì, ma fu sfiorata la strage. La reazione a episodi di questo genere, che spesso vedevano coinvolti anche «normali» cittadini, fu di inasprire le norme. Non contro i razzisti, ma quelle «troppo generose» nei confronti dei profughi.
E così, nel maggio del 1993, quando cancelliere era il democristiano Helmut Kohl, il parlamento votò una riforma costituzionale che limitò fortemente la disponibilità della Germania ad accogliere i richiedenti asilo. Una cambiamento conosciuto come Asylkompromiss, «compromesso sull’asilo», perché frutto dell’accordo fra la maggioranza di allora (la stessa di oggi: Cdu-Csu e liberali della Fdp) e l’opposizione socialdemocratica: un patto necessario per raggiungere la maggioranza dei due terzi, richiesta per le modifiche alla Costituzione della Repubblica federale. Una vicenda molto controversa, che costò alla Spd il consenso dei settori più avanzati della società e la contrappose ai movimenti antirazzisti.
Ma la Germania, in quegli anni, aveva da badare a sé, e le preoccupazioni principali erano dirette all’integrazione non degli stranieri, ma degli ex cittadini della Ddr. C’è sempre qualcuno che viene prima dei migranti: soprattutto in fasi di crisi e di paura per un benessere che si ha paura di perdere. L’estrema destra lo sa bene. Ora come allora prova ad alimentare il risentimento razzista di settori della popolazione tedesca: da quando è cominciata la campagna elettorale, il partito neonazista Npd non perde occasione per indire manifestazioni di protesta contro «l’invasione dei profughi» nei pressi dei centri di accoglienza.
L’esempio più recente e clamoroso è quello di Marzahn-Hellersdorf, quartiere popolare della parte orientale di Berlino, fatto di tristi casermoni nel più puro stile socialismo reale. Qui i neonazisti siedono nel consiglio municipale, forti del 4,1% dei voti (lo sbarramento è al 3%). In una vecchia scuola superiore abbandonata è stato da poco inaugurato un centro per richiedenti asilo in fuga dalla Siria e dalla Cecenia, contro il quale la Npd ha alimentato il malcontento di una parte degli abitanti della zona e organizzato due manifestazioni in due settimane. Fra i migranti regna la paura: la minaccia di subire aggressioni è concreta.
Davanti alla ex scuola campeggia un presidio antifascista permanente: ci sono Autonomen, militanti dei partiti di sinistra e attivisti del quartiere che si danno il cambio. Fra di loro ci sono anche Mirjam e Max, entrambi studenti di 27 anni: «Siamo qua per vigilare e per offrire aiuto ai pochi migranti che trovano il coraggio di uscire dalla struttura. Inoltre, per noi è molto importante riuscire a parlare con la gente che vive qua attorno: cerchiamo di convincerla che i richiedenti asilo non porteranno l’aumento della criminalità, come invece dicono i fascisti». A loro giudizio, la Germania «ufficiale» fa troppo poco contro il razzismo, e non hanno nessuna speranza che dal prossimo 22 settembre le cose possano cambiare: «Tutto resterà come adesso, o peggio».
La Npd rende la vita di profughi e richiedenti asilo più difficile di quanto non sia già. Gli ospiti delle strutture come quella di Marzahn-Hellersdorf vivono una condizione parzialmente diversa dai «lampedusani»: sono accolti in strutture, ma non possono lasciare il Land in cui si trovano. In comune condividono l’impossibilità legale di lavorare. L’assurdo divieto di movimento diventa in taluni casi pura crudeltà: il centro di accoglienza di Hennigsdorf è un esempio emblematico. Due palazzi realsocialisti, di tre piani ciascuno, in mezzo a quel nulla che è la periferia di un paesino tutt’altro che ridente alle porte della capitale. Siamo vicinissimi al tracciato del muro che separava la Germania est da Berlino ovest: quella che fino al 1990 era una caserma di soldati sovietici, adesso è la residenza dei profughi.

Il muro di Hennigsdorf
«Qua a Hennigsdorf – ci spiega Giulia Borri, con la quale visitiamo la struttura – siamo a una fermata di metropolitana dalla capitale, ma i migranti non possono andarci, perché siamo già in Brandeburgo, che è un altro Land. E loro non possono attraversare la frontiera: sono costretti a restare in un piccolo centro come questo, che non offre nulla. Se decidono lo stesso di andare a Berlino, rischiano di essere controllati in virtù del cosiddetto racial profiling: la polizia chiede i documenti più spesso a chi ha un aspetto da straniero che non a un bianco». Giulia è autorizzata ad accedere alla residenza per insegnare tedesco – la sua madrelingua. Dottoranda in sociologia all’Università Humboldt di Berlino, studia da tempo la questione dei rifugiati in Europa. «Anche a Hennigsdorf ci sono state, come in altri centri, manifestazioni auto-organizzate dei migranti per il diritto a muoversi liberamente e a lavorare, ma anche contro i voucher per fare la spesa: se vai nei negozi del paese con i buoni-acquisto, non solo non puoi comprarti quello che vuoi, ma vieni subito stigmatizzato», racconta. «Le condizioni di vita di queste persone mostrano chiaramente qual è il senso della politica europea verso i profughi: prima che sia deciso se avranno l’asilo, sono obbligati a subire un totale, disumano, isolamento».