Spesso Gramsci ci azzeccava davvero. Soprattutto quando scriveva della sua amata letteratura. Lo fece per esempio in uno degli ultimi Quaderni del carcere, forse steso in clinica a Formia: «Che cosa significa il fatto che il popolo italiano legga di preferenza gli scrittori stranieri? Significa che esso subisce l’egemonia intellettuale e morale degli intellettuali stranieri, che esso si sente legato più agli intellettuali stranieri che a quelli “paesani”, cioè che non esiste nel paese un blocco nazionale intellettuale e morale, né gerarchico e tanto meno egualitario. Gli intellettuali non escono dal popolo».
È uno scritto probabilmente del 1934 e fa riferimento a quel che succedeva all’epoca; anche se alla fine sembra adatto a tutto il dopoguerra italiano, e arriva benissimo fino all’oggi, quando, con il web, le «traduzioni», i testi e il mondo estero si sono moltiplicati per cento, per mille, mentre tutto ciò che è italiano è rimasto più o meno fermo e inespressivo. Ma oggi Gramsci viene «ancora più» in mente leggendo i testi di un gruppetto di giovani studiosi presenti in Italia, che sta facendo una piccola rivoluzione proprio su quell’argomento: la traduzione.
Sono tutti specialisti, anche se quasi nessuno di loro è riuscito a ottenere il riconoscimento che merita: e a questo punto c’è da pensare che non si tratti di un caso, ma piuttosto di un’ostilità pregressa, diffusa nell’Accademia e non solo, nei confronti della questione «traduzioni». In altre parole, essi si occupano di un tema della cultura italiana da sempre considerato secondario, o comunque non meritevole di essere valorizzato. Per decenni si è ritenuto che fosse prioritario (e più vantaggioso per la carriera) occuparsi di autori italiani – quasi sempre i soliti noti –, piuttosto che andare a vedere, per esempio, ciò che di davvero «popolare» la cultura letteraria italiana, soprattutto sulla base di quella straniera, stava cercando di produrre.
Adesso il piccolo gruppo lo si può individuare in alcuni titoli, ben tre, usciti più o meno contemporaneamente, tutti con a tema appunto le traduzioni: Il vizio dell’esterofilia Editoria e traduzioni nell’Italia fascista, di Christopher Rundle (Carocci, pp. 216, e 21,00); Cacciatori di libri Gli agenti letterari durante il fascismo, di Anna Ferrando (Franco Angeli, pp. 304, e 37,00); Stranieri all’ombra del duce Le traduzioni durante il fascismo (sempre a cura di A. Ferrando, Franco Angeli, pp. 346, e 40,00), dove sono da segnalare i notevoli studi di alcuni giovani che presentano nuove documentazioni: Natascia Barrale, Michele Sisto, Daria Biagi.
Cosa ha da dirci in sostanza questa piccola «scuola», storica ancor prima che culturale, che pare aver risposto alle parole di Gramsci? Che la nostra vera cultura, appunto «popolare», del Novecento, non proviene da una struttura dotta e letteraria – oltre che solo italiana. In realtà è esistita anche, ed è stata rilevante, la tendenza a leggere e conoscere «in traduzione» la cultura degli altri paesi, i prodotti provenienti dall’estero. Si tratta di un fenomeno nato a partire dalla Prima guerra mondiale, quando il rapporto con gli Stati Uniti e l’Inghilterra, ma anche la Francia, la Germania, la Russia sovietica e perfino la Cina e il Giappone, divenne improvvisamente intenso, curioso, interessato: in una parola, cosmopolita.
Arrivavano i gialli, i romanzi d’avventura, i racconti di viaggio in tutto il mondo, Agatha Christie, Kipling… Ma anche il comunismo russo e Lenin, Remarque e la guerra, i primi incubi di Kafka, Simenon, i primi Freud e Jung. E gli autori stranieri incominciarono a vendere anche tra le venti e le cinquantamila copie, quando il record per quelli italiani (e oggi, dopo settanta-ottanta anni, non è molto diverso) poteva essere tra le tre e le cinquemila: sono cifre che la dicono lunga. Il regime fascista, per esempio – è un pregio del libro di Rundle averlo studiato con grande cura, ricchezza e precisione –, l’aveva capito, e fu in buona sostanza favorevole e abile nell’accettare le traduzioni in grande stile, che pure andavano contro un’idea nazionalista della cultura. Ci fu qualche grosso problema con la guerra d’Etiopia prima, e con la persecuzione degli ebrei poi. Ne seguirono l’«autarchia» e la persecuzione degli autori ebrei, a partire da quelli stranieri; così Marinetti e la sua cricca tentarono di vincere in campo letterario e culturale una battaglia che finalmente conduceva, dall’alto, a una esaltazione degli autori italiani.
Ma anche in quel caso il regime fu prudente: diminuirono le traduzioni, soprattutto di autori divenuti da un punto in poi «nemici» –, per esempio gli americani in quanto c’era la guerra. Ma sotto questo profilo non era un regime ottuso: occorreva ridurre, ma non si doveva eliminare. Il caso di Americana, la celebre antologia Bompiani di autori Usa curata da Elio Vittorini nel 1941 e poi nel 1943, ne è un esempio lampante: Rundle le dedica un capitolo del suo libro, ricchissimo di documenti e testi. Americana un po’ misteriosamente rimase in piedi, e ancora oggi non tutto è chiaro su quel che accadde, salvo il fatto che esistono copie delle edizioni che avrebbero dovuto essere eliminate.
Se questa è la storia del sistema politico e industriale delle traduzioni, c’è poi quella della loro realizzazione. Altro mondo difficile, ricostruito e raccontato da Anna Ferrando nel suo altrettanto notevole lavoro, basato soprattutto sulle vicende delle agenzie letterarie – altro pianeta ancora oggi pressoché sconosciuto –, che erano quelle che fornivano la gran massa di traduzioni. La storia principale raccontata dalla Ferrando è quella di Augusto Foà, il fondatore dell’Agenzia letteraria Internazionale, nato nel 1898 e quindi all’epoca giovanissimo. Foà era il padre di Luciano, futuro fondatore dell’Adelphi; anche lui fu un intelligente agente letterario e divenne punto di riferimento di un altro campione del settore, Erich Linder, oltre che di un traduttore principe quasi segreto: Bobi Bazlen.
Per capire quanto fosse misterioso e complesso il mondo degli agenti letterari basterebbe considerare la storia di Augusto Foà, che era in realtà un alto funzionario di un’importante società di telefoni: a un certo punto egli entrò in relazione con una sartoria, pur di salvare l’agenzia quando questa, essendo lui ebreo, venne presa di mira. È una storia incredibile e insieme affascinante, un mix di produzione e cultura. Le traduzioni, che venivano realizzate con bassissimi costi e grandissimi sforzi, attiravano sia i grandi editori (compreso naturalmente il sempre geniale e ubiquo Mondadori) sia i piccoli o piccolissimi, ma abili e di aperte vedute, come Gian Dàuli o Monanni.
Da questi studi esce fuori e va maturando anche una figura «nuova», che per la verità si era ormai intuita, quella del traduttore sofisticato. Cacciatori di libri, ad esempio, contiene un bel capitolo dedicato ad Alessandra Scalero, cruciale traduttrice ma anche talent scout editoriale interessantissima. Essa lavorò – in maniera pressoché sconosciuta – per tutta l’editoria italiana. Sulla Scalero esiste peraltro un archivio ricchissimo nel Canavese, in Piemonte: sarebbe davvero utile che le venisse finalmente dedicata una biografia, per poter leggere un nuovo libro intero su di lei.
Belle storie, insomma, che forse incominciano a spiegarci quel che è successo davvero nella cultura italiana. C’è un episodio cruciale che colpisce, fra tanti altri. Lo ricorda sempre Anna Ferrando, e ha per protagonista Luciano Foà, figlio di Augusto: entrato all’Einaudi circondato da grande prestigio, fu lui a tentare di far pubblicare Nietzsche dalla casa torinese. Ma venne respinto con durezza da Delio Cantimori, per evitare di offendere gli autori della casa, Salvemini e Gramsci: era la «vera cultura» italiana ad avere la corsia preferenziale. Dunque anche Nietzsche «in italiano» può dirsi figlio delle agenzie di inizio secolo, anche se si dovette aspettare la Adelphi, fondata quindici anni dopo proprio da Foà, per farlo arrivare in Italia nel secondo dopoguerra. Salvemini e Gramsci meritavano tutto, non però l’eliminazione di Nietzsche.