Tarantolato, avvitato, una mina vagante. Propone rose di nomi, annuncia vertici, dorme tre ore a notte, avverte i suoi di stare pronti alle tre del mattino, gira per Roma alla ricerca spasmodica di «avvocati e docenti universitari» da mandare al Quirinale.
Matteo Salvini voleva essere il king maker del nuovo capo dello Stato, passare il suo esame di maturità da leader del centrodestra e invece brucia nomi come un lanciafiamme. «Chiudiamo oggi», poi domani, «la soluzione è vicina», ma non troppo.

Prima la «rosa» di nomi partorita martedì con Meloni e Tajani, Pera-Moratti-Nordio, appassita ancora prima di fiorire. Poi la ridda di dichiarazioni a singhiozzo, vogliamo un nome «di centrodestra» rivendicando la primazia nella scelta, poi apre a nomi condivisi coi giallorossi. Tenta la spallata sul nome di Casellati, poi si accorge che i numeri non ci sono, flirta con Conte su Frattini, ci ripensa, ieri sera rispunta Frattini, con la prevedibile insurrezione di Letta e Renzi.

Un momento cerca di tenere insieme il centrodestra, e negozia con Meloni, poi si accorge che c’è anche la maggioranza di governo che traballa: telefona a Draghi e a Letta, promette, poi ci ripensa. Mercoledì sonda il professor Sabino Cassese, definito un «coniglio nel cilindro», ieri è il turno dell’ambasciatore Giampiero Massolo, già capo dei servizi segreti, ora presidente di Fincantieri: incontro smentito, come già con Cassese, ma in realtà il nome è nella nuova rosa del capo leghista: meno politica e più società civile, come da nuovo ordine di scuderia. Certo, anche su Massolo pesano le tante riserve, e non solo del Pd, sul fatto di essere stato a capo degli 007. Esattamente come Elisabetta Belloni. Ma tant’è: ieri notte era questo il nome portato al tavolo con Forza Italia e Fdi.

Poi c’è il caso Casini: più fonti confermano che mercoledì Salvini aveva chiuso l’accordo con Renzi sull’ex leader Udc, con l’ok di Berlusconi. Ieri mattina la retromarcia: «Casini è uno che è stato eletto col Pd, una proposta della sinistra». Bella scoperta. Non è chiaro se il leghista ci abbia ripensato motu proprio o se sia stata Giorgia Meloni a porre il veto. Poco importa, perché tenere insieme la maggioranza che sostiene Draghi con Fdi che sta all’opposizione è una mission impossibile. Tocca scegliere, cosa che il leghista non sembra riuscire a fare.

E così ieri scatta il tour per Roma alla ricerca di avvocati e docenti, che un po’ ricorda la ricerca del premier nel 2018, quando con Di Maio andò a bussare alla porta dello conosciuto Giuseppe Conte. Un po’ ricorda la famosa citofonata al quartiere Pilastro di Bologna, nel gennaio 2020, pochi giorni prima delle regionali. E così la mitica frase «Scusi, lei spaccia?» si è trasformata nei meme e sui social in «Scusi, vorrebbe fare il presidente della repubblica?».

Una confusione incredibile, che in parte è legata alla paura di Giorgia Meloni. Lei è l’unica che finora ha pesato un nome di area nelle vere votazioni (mentre la consegna del centrodestra era votare scheda bianca), l’amico fraterno Guido Crosetto, che ha preso il doppio dei voti di Fratelli d’Italia (114 ), anche dai leghisti. Un colpo alle sicurezze del sedicente Capitano, la dimostrazione plastica che lei se vuole può fargli male nel segreto dell’urna.

I suoi compagni di partito ormai non sanno più che fare. «Salvini ci ha detto di stare tranquilli che è tutto a posto…», spiega alla Camera Giancarlo Giorgetti, dopo l’ennesima riunione leghista, tra il rassegnato e l’ironico. Lui aspetta lungo la riva del fiume, insieme ai potenti governatori del nord, che alla fine «Matteo» si rassegni a Draghi. Difficile, improbabile ma possibile. Lui comunque non si dà per vinto. E l’attivismo sfrenato e sconclusionato di queste ore ha questo unico sottile filo logico: dire no a Draghi.

C’entrano solo le scarse rassicurazioni offerte dal premier sul nuovo governo che verrebbe? Certamente. Ma non c’è solo questo. Percome si è messa dire sì a Draghi ormai sarebbe una sconfitta per il leghista. Anche dentro il partito. La certificazione del fallimento dell’operazione king maker. La bocciatura all’esame di maturità.

E del resto, mentre i giorni passano, i tanti buchi nell’acqua del capo leghista finiscono per avvicinare le soluzioni più naturali: Mario Draghi o Sergio Mattarella. O magari Casini, appena bocciato, «ma forse Salvini ci ripensa», dicono a Montecitorio. Ora anche l’asse con Renzi si è frantumato, e il Matteo leghista è rimasto senza il suo gemello, assai più scaltro nella manovra parlamentare.