Things gonna be alright, things gonna be just fine, if love is around (Le cose andranno bene, le cose andranno bene…Se intorno c’è l’amore), canta Kendrick Lamar in quello che è diventato l’inno del movimento Black Lives Matter. Ma ovviamente nulla sta andando bene se, dopo la lettera pubblicata su The Guardian da Eni Aluko, calciatrice della Juventus che ha lasciato il club e l’Italia denunciando il razzismo che si respira nel paese, tutti si sono affrettati a cercare alibi e giustificazioni.

Nata in Nigeria e trasferitasi subito in Inghilterra, per la cui nazionale ha giocato oltre cento partite, Eni Aluko ha sempre accompagnato la passione per il calcio con quella per la giustizia. La lettura de Il buio oltre la siepe le ha trasmesso la voglia di lottare per la difesa dei diritti degli ultimi, e l’ha convinta a laurearsi in legge. L’amore per il pallone l’ha portata a diventare giocatrice professionista per diverse squadre, tra cui il Chelsea e poi, dal 2018, la Juventus. La parentesi bianconera però è terminata prima del previsto. Come ha scritto su The Guardian: «Torino sembra indietro di un paio di decenni rispetto all’apertura verso diversi tipi di persone». Raccontando poi come ogni volta che atterrava all’aeroporto di Caselle fosse fermata, perquisita o annusata dai cani «come Pablo Escobar», o come quando entrava nei negozi fosse guardata male, «in maniera diversa rispetto alle altre persone».

L’episodio del supermercato l’aveva descritto con maggiori dettagli in un articolo per The Player’s Tribune, in cui raccontava come fosse stata inseguita da una commessa che le voleva imporre di lasciare lo zaino all’ingresso, spiegando come fosse prassi comune nell’esercizio commerciale, mentre le altre persone, i bianchi, camminavano tranquillamente con lo zaino in spalla o nel carrello. Il suo durissimo j’accuse dovrebbe solo spingere a riflettere su come si sia ridotta l’Italia, il paese degli accordi di Minniti con la Libia o del decreto sicurezza di Salvini, dei pogrom fascisti nelle case popolari e degli episodi di razzismo diffusi nelle strade e sui mezzi pubblici. E invece, things gonna be alright, things gonna be just fine. La sindaca Appendino non trova di meglio che commentare: «È un problema di poche persone, Torino non si rassegna», mentre Maria Luisa Coppa, presidente dell’associazione commercianti del capoluogo piemontese, dice serafica che «Torino non è razzista». Italiani brava gente, come sempre. E tanti saluti al nostro rimosso coloniale.

Ancora peggio, volendo, reagisce il mondo del calcio. Tanto Eni Aluko è stata attenta a sottolineare che non si riferiva a episodi di razzismo negli stadi o negli spogliatoi, ma a un atteggiamento generale del paese, così il circo pallonaro insorge. Non doveva andarsene, doveva restare a combattere, urlano pugnaci dalle loro cattedre giornalistiche uomini bianchi di mezza età. «Nuove leggi contro il razzismo», chiede la Lega di Serie A, come se le leggi non ci fossero già e non fossero bellamente ignorate. E come, soprattutto, se non fosse oramai chiaro che non è un problema di leggi o di repressione, l’ha spiegato lei per prima, ma delle passioni tristi che imprigionano un intero paese.

Tra l’altro Eni Aluko, che partecipa al progetto Common Goal con cui diversi calciatori destinano l’1% dei loro guadagni a progetti sociali, scrive che c’è anche un grave problema di discriminazione di genere, con il calcio femminile inquadrato come dilettantistico e non professionistico, con tutte le conseguenze del caso. Ma anche qui, risponderanno tutti che si sta facendo qualcosa, e che in fondo il problema del gender gap non esiste e non è parte integrante della nostra società, al massimo è limitato a poche persone. In Italia no, in Italia va tutto bene.