In principio fu Qart Hadašt, la città nuova, fondata alla fine del IX secolo a.C. dai Fenici di Tiro là dove l’Africa sfiora le sponde settentrionali del Mediterraneo. Per i romani era l’esotica Carthago e i suoi fichi arrivavano freschissimi nell’Urbe, al punto da indurre Catone a portarne un cesto in senato, per manifestare la necessità di distruggere una potenza mercantile così minacciosamente vicina. Assieme alla celebre locuzione Delenda Carthago pronunciata dal Censore, la tradizione classica ha trasmesso un’idea della città punica quale «alterità radicale». La mostra Carthago. Il mito immortale (fino al 29 marzo 2020 al Colosseo e al Foro romano) nasce invece con il proposito di rovesciare la prospettiva del vincitore e restituire a Cartagine la sua autonomia. Pensata come un «grande affresco storico generale», l’esposizione curata da Alfonsina Russo, Francesca Guarneri, Paolo Xella e José Ángel Zamora López assume però la forma di una sintesi quasi scolastica sulla civiltà fenicio-punica, appiattendosi a tratti su quegli stereotipi che ambisce a cancellare. A mancare è soprattutto una panoramica sulle più recenti acquisizioni della ricerca archeologica e, nel percorrere il circuito tendente all’horror vacui allestito tra le arcate dell’Anfiteatro Flavio, si ha l’impressione che pochi siano stati i progressi della disciplina rispetto alla memorabile rassegna sui Fenici svoltasi nel 1988 nella cornice di Palazzo Grassi a Venezia sotto la direzione di Sabatino Moscati (la cui eco si riflette nell’immagine scelta per promuovere l’evento romano), seguita – a onor di cronaca – da numerose e apprezzabili esposizioni: Sea Route…from Sidon to Huelva: interconnections in the Mediterranean 16th – 6th C. BC al Museo dell’Arte Cicladica di Atene (2003), I Fenici, l’Oriente in Occidente presso la Biblioteca di via Senato a Milano (2004), Hannibal ad portas. Macht und Reichtum Karthagos al Badischen Landesmuseum di Karlsruhe (2004-’05), La Méditerranée des Phéniciens de Tyr à Carthage all’Istituto del mondo arabo di Parigi (2007-’08). La mostra in corso al Parco del Colosseo debutta con il mito di fondazione di Cartagine legato alla figura di Elissa / Didone, sorella del re Pigmalione, fuggita da Tiro e assurta a eroina «romantica» grazie ai versi in cui Virgilio immortala il suo infelice amore – forse un’invenzione del poeta – per Enea. Oltre alla copia del manoscritto miniato cosiddetto Vergilius Vaticanus con scena di Didone che si uccide sulla pira (l’originale risale al 400 d.C.), un salto nell’immaginario moderno avrebbe facilitato la decostruzione dell’archetipo del punico, esemplificato proprio dalla sovrana levantina e da Annibale, che tanta fortuna ebbe nelle arti dopo la pubblicazione, nel 1862, di Salammbô, il capolavoro orientalista di Gustave Flaubert. Il Moloch di cartapesta che rimanda alla pellicola Cabiria (1914) di Giovanni Pastrone collocato all’ingresso dell’anfiteatro e la «citazione» di dipinti, locandine di cinema e litografie usate come scenografia dell’esposizione appaiono infatti insufficienti per spiegare l’impatto del mito di Cartagine nella cultura europea, argomento affrontato, seppur per brevi cenni, nel catalogo edito da Electa. La sezione dedicata al Barcide, icona cartaginese per eccellenza, trionfatore nella penisola italica e poi sconfitto a Zama nel 202 a.C. da Scipione l’Africano, si sarebbe ugualmente prestata, senza sorvolare sulle fonti greche e latine, a un excursus critico tra film del genere peplum, romanzi e fumetti. Ma la carismatica personalità del generale, sondata anche da uno storico nostrano quale Giovanni Brizzi, è rievocata attraverso una copia del cinquecentesco busto del Quirinale e pochi altri oggetti che ricordano l’avvincente traversata delle Alpi, come la zampa di elefante bronzea (III secolo a.C.) riemersa dal canale di Sicilia, trenta miglia a nord di Biserta, e la statuetta con elefante da Pompei (I secolo d.C.).
Ai conflitti che videro sfidarsi romani e cartaginesi per più di un secolo sono consacrate invece interessanti vetrine con armi, elementi di armature e un raro prometopidion dalla Tomba 669 di Forentum (Lavello), a cui si aggiunge una pregevole corazza con raffigurazione di dea guerriera rinvenuta a Ksour es-Saf in Tunisia. Da menzionare, inoltre, il focus sulla battaglia delle isole Egadi con il quale s’intende onorare la memoria di Sebastiano Tusa, promotore delle indagini subacquee intorno all’isola di Levanzo che hanno permesso di recuperare importanti testimonianze dello scontro navale del 241 a.C. I due rostri a tridente con decorazione di Vittoria alata e iscrizione latina e il rostro con doppia iscrizione punica recentemente restaurato nonché gli elmi del tipo Montefortino (uno con applique a forma di leontè) sono i pezzi più rilevanti dell’esposizione, che avvicinano emozionalmente agli eventi del passato. Singolare la scelta di esporre un terzo elmo del tipo Montefortino, inaspettatamente conservato in Germania e attribuito all’«area della battaglia di Canne», per la cui precisa localizzazione sarebbe auspicabile l’applicazione delle metodologie pertinenti all’archeologia delle battaglie.
L’espansione commerciale e culturale di Cartagine nel Mediterraneo – avviata in modo sistematico a partire dal VI secolo a.C. – che interessò dapprima le colonie fenicie del Nord Africa e poi quelle della Sicilia, della Sardegna e dell’Iberia è rappresentata da oggetti emblematici quali statuette, protomi femminili e maschere ghignanti in terracotta, monili d’oro e placchette in avorio provenienti da Ibiza, Mozia, Tharros, Monte Sirai e San Sperate. A fronte dell’abbondanza di reperti (oltre quattrocento) confluiti a Roma, colpisce l’assenza di materiali da Huelva, all’estremità occidentale del mondo antico, dove sono venute alla luce anfore di Tiro della fine del IX secolo, in connessione con vasi di produzione tartessia. Anche le anfore vinarie sarde di Sant’Imbenia di ispirazione fenicia che costituiscono il tipo maggioritario a Cartagine nella prima età del Ferro o le cretule dell’VIII secolo a.C. con l’impressione dei sigilli-scarabei dei mercanti fenici trovate nello scavo del Cine Comico a Cadice (l’antica Gadir) avrebbero consentito a un pubblico eterogeneo di stare al passo con le ultime scoperte.
Al Tempio di Romolo va in scena il passaggio dal dominio cartaginese a quello romano mentre nella Rampa imperiale si celebra la Colonia Concordia Iulia Carthago (entrambe le sezioni sono a cura di Martina Almonte e Federica Rinaldi). Nel primo edificio vengono presentati tre casi studio, di cui il più «parlante» è il contesto sacro relativo all’acropoli di Cossyra a Pantelleria, dove fino alla tarda età repubblicana sopravvivono retaggi della religiosità punica. Il finale dell’esposizione non riserva sorprese: qui si trovano molti dei reperti – come il Giove Frugifer dalla villa romana in località Oued Ermal o il mosaico con raffigurazione di Cerere da Uthina – già visti nella bella mostra Il Bardo ad Aquileia organizzata all’indomani dell’attentato che nel marzo 2015 colpì il museo tunisino e in cui persero la vita ventiquattro persone, fra cui quattro italiani. E se la direttrice del Parco del Colosseo Alfonsina Russo sottolinea che la rassegna romana vuole contribuire al rilancio dell’immagine del Bardo, duole constatare lo scarso coinvolgimento delle studiose e degli studiosi maghrebini (solo sette su settantanove autori del catalogo, una sola donna) quotidianamente impegnati nella salvaguardia di un patrimonio eccezionale, nondimeno esposto al degrado, alla speculazione edilizia e agli scavi clandestini. Anche questa un’occasione persa per affermare con un gesto di vera collaborazione la fratellanza tra i popoli del Mediterraneo e indurre a riflessioni sull’attualità che esulino dalla retorica e dalla mera propaganda politica.