Circondati, assediati da immagini noi le recepiamo in maniera frontale, una via l’altra. Esse ci hanno già occupato la mente prima che noi si sia potuto elaborare un loro senso. È tale, nel corso di una giornata, l’erogazione costante di ogni sorta di immagini (pubblicitarie, televisive, fotografiche, documentarie eccetera) che noi vi entriamo in contatto con passiva accettazione: ne siamo invasi: esse scendono su di noi e si sovrappongono, ci coprono, ci farciscono, ci costipano.

Le immagini si susseguono come autosufficienti, non richiedono interpretazione, ma, proliferando, inducono alla accumulazione che alimenta una nostra dipendenza inerte e ci dispongono ad accettare l’ordine che da esse ci proviene: gerarchie di idee, di gusti, di emozioni indotte. Sempre meno ne operiamo una disamina critica, una consapevole analisi che valga e si attesti come una nostra libera presa di possesso. Se non ciechi addirittura, siamo resi incapaci di formulare, a nostra volta, immagini che non siano repliche, copie, calcomanie. E ad una immagine virtuale veniamo conformando noi stessi attraverso le immagini che a nostra volta noi produciamo ed elaboriamo a mezzo di smartphone, Ipad, Iphone, selfie eccetera.

Significativamente si ricorre al termine di virtuale per designare questo permanente proliferare di immagini che si offre alla nostra percezione fino a signoreggiarla. Alludo al già dilagato e ora tracimante, simultaneo e pervadente universo dei social network, da parallelo divenuto intimo, capace di assorbire e trasformare, evidenziare e annullare, esaltare in immagine omologata ogni nostra singola e personale determinazione.

Inserito nella circolazione della riproduzione di immagini virtuali, io sono il consumatore omologato di prodotti seriali, il predisposto destinatario anonimo, da riconoscersi come l’oggetto impersonale di un consumo sempre e ovunque disponibile.

Ragionando sulle immagini della pittura, Bernard Berenson raccomandava: «guardare bisogna: guardare e guardare, fino a rivivere l’opera e per un attimo immedesimarci con essa». E, infatti, in altri tempi, lontani ormai dal nostro, si affidava all’osservazione attenta la conoscenza e l’acquisizione critica d’una immagine. L’osservare, guardare e riguardare, reca consapevolezza, apporta, dell’immagine, un possesso emotivo e intellettuale. Proprio all’opposto dell’attuale assuefazione passiva, del consentire automatico che si ripete e dilaga in coazioni conformi che la mia consapevolezza ottundono e serializzano.

Delle immagini, oggi, sono piuttosto l’ostaggio, la preda. Non il cultore che, come dice Berenson, si fa autore in una creativa reciprocità con l’immagine, capace di istituire corrispondenze di senso che riconosco mie. Cultore, un termine al quale si fa ricorso raramente. Nel Dizionario dei sinonimi della lingua italiana, Niccolò Tommaseo lo illustra richiamandone i «molti sensi traslati», tra gli altri «il coltivar sé stessi» che cade, appunto, al nostro proposito.

Ma tant’è. Chi intenda ai nostri giorni attenersi alla regola del guardare e riguardare è costretto a operazioni difficilissime e impervie per assicurarsi quella osservazione diretta, il contatto che, appunto, consente quel rapporto di reciprocità indispensabile affinché si realizzi una ‘intesa’. Ovvero si determini quello speciale e delicato corrispondere che permette, a chi la accosta osservandola, una sua altrettanto unica e a sua volta irripetibile appropriazione dell’immagine. Donde il convincimento espresso da Berenson di come sia l’osservazione attenta e ripetuta a istituire il contatto vivo con una pittura.

Dunque osservare per formulare a mia volta l’immagine che ho di fronte fino a costruirla io secondo le corrispondenze che ne ho istituito guardandola. Nello stabilire un contatto per corrispondenze ed assimilazioni, l’osservatore ricrea l’opera di pittura.
Ne sonda e ne attinge le scaturigini; ne constata e ne valuta i raggiungimenti conseguiti; ne divina e figura gli ulteriori, liberi svolgimenti. «Il coltivar sé stessi», nel guardare e riguardare un’immagine conferisce al cultore una acquisizione di libertà che lo assimila all’autore.