Per qualche decennio, il miracolo economico italiano si è retto sul principio che il lavoro veniva prima di tutto. Comprensibile, in un paese che usciva devastato dalla guerra, si trascinava un irrisolto divario tra nord e sud e voleva lasciarsi alle spalle il passato agricolo. La parola chiave fu modernizzazione e assunse le sembianze della fabbrica.

Finché, il 10 luglio del 1976, una densa nuvola si alzò dallo stabilimento chimico Icmesa di Meda, a nord di Milano, e si diresse verso la vicina Seveso. Ci volle una settimana di febbri e bruciori tra la popolazione perché la nuvola di diossina conquistasse le prime pagine dei giornali e l’opinione pubblica venisse a conoscenza del più grave disastro industriale mai avvenuto in Europa. L’incidente di Seveso rappresentò uno spartiacque per l’Italia, svelando il lato oscuro dell’industrializzazione e aprendo la strada alle prime leggi sull’ambiente.

Oggi a Meda c’è un bel parco verde e di quella storia non si parla più. Le emergenze ecologiche vanno dall’Ilva di Taranto alla poco citata zona industriale della Valle del Sacco, alle porte di Roma, e non bastano le dita di due mani per contare i siti inquinati e da bonificare, eredità del boom economico che ha portato in pochi anni l’Italia a entrare nell’élite delle prime otto potenze industriali al mondo.

Marina Forti ne ha visitato alcuni, raccogliendo il viaggio in un libro, Mala terra (Laterza, pp.198, euro 13), che si legge come un lungo reportage nell’Italia della deindustralizzazione. Forti, ex giornalista del manifesto (dove per anni ha curato una fortunata rubrica sull’ambiente, intitolata Terra terra), ha attraversato l’Italia dei veleni, da Brescia – sulle tracce delle scorie della ex Caffaro – ai petrolchimici di Priolo e Augusta, in Sicilia, passando per Portoscuso in Sardegna e la Bagnoli napoletana che ispirò il romanzo La dismissione a Ermanno Rea, tracciando una mappa delle aree da bonificare, sviscerando scandali e dando voce ai comitati di cittadini impegnati a far valere le ragioni della salute e dell’ambiente contro la realpolitik dei posti di lavoro e dello sviluppo a ogni costo.

Ne viene fuori il ritratto di un Malpaese devastato e avvelenato, dove i bambini non possono giocare nei giardinetti inquinati da diossina e Pcb, come a Brescia, o uscire di casa nei cosiddetti «wind days», le giornate in cui la tramontana spinge le nuvole color ferro delle acciaierie verso la città di Taranto.

All’Ilva è dedicato un capitolo tra gli altri, ma la storia merita qualche considerazione in più perché negli ultimi anni è stata l’emblema della contraddizione tra lavoro e salute in Italia, come in passato lo era stata della mancata trasformazione dei contadini in operai (al massimo divenivano «metalmezzadri», raccontò l’inviato del Corriere della Sera Walter Tobagi alla fine degli anni 70). Le acciaierie non si sono mai fermate nonostante le inchieste giudiziarie, in nome della tutela dell’occupazione (Loris Campetti ne ha ricostruito le vicende in un altro libro, Ilva connection, pubblicato dall’editore Manni). La città si è divisa a metà tra ambientalisti e “lavoristi”, lo scontro è stato aspro e alla fine il governo giallo-verde ha assicurato alla fabbrica una nuova vita, cedendo la proprietà alla multinazionale Arcelor Mittal. In fin dei conti, lasciando che la ferita di una stagione che ha cambiato radicalmente i connotati al Belpaese continui a sanguinare.