Giuseppe Conte lo sapeva da mesi che prima o poi Mario Draghi avrebbe preso il suo posto a palazzo Chigi. E sapeva perfettamente che Matteo Renzi a quello stava lavorando, con la sponda di Berlusconi e del leghista Giancarlo Giorgetti. Dopo il discorso dell’ex presidente Bce in agosto al Meeting di Cl, con quel «warning» sui giovani e sul debito «buono» e «cattivo», la poltrona dell’avvocato aveva già avuto un sussulto. A inizio settembre il premier aveva provato, in modo maldestro, scacciare il fantasma del banchiere: «Gli chiesi se era disponibile per guidare la commissione Ue. Mi disse che era stanco…».

L’appuntamento delle regionali di settembre avrebbe dovuto essere il big bang per l’operazione: Renzi si aspettava una netta sconfitta del Pd, a quel punto il governo sarebbe caduto, lui avrebbe tentato di riprendersi il partito del Nazareno (per interposta persona, con Bonaccini o un altro ex fedelissimp) et voilà, si sarebbe subito messo al lavoro sul dossier Draghi.

La vittoria del Pd in Toscana e in Puglia ha fermato il rottamatore, la seconda ondata della pandemia, i ritardi del governo e la furia accentratrice di Conte, con l’errore fatale con la task force sul Recovery e l’emendamento notturno, hanno rimesso in pista il progetto. Che ha avuto la spinta decisiva, come aveva pronosticato Giorgetti, con la vittoria di Biden che ha tolto uno sponsor pesante all’avvocato e rinfrancato il senatore di Rignano sedicente obamiano.

Quanto a Draghi, che molti già descrivono come il nuovo Ciampi (prima un governo d’emergenza e poi il salto al Quirinale) il suo discorso in agosto ai ciellini era parso troppo denso per essere solo un consiglio per gli addetti ai lavori di Montecitorio, troppo forte per non essere un’agenda, un programma di un governo futuribile: «I sussidi finiranno, serve un massiccio investimento sull’istruzione e sui giovani. Privarli del futuro è la più grave delle diseguaglianze».

Nelle ultime settimane, mentre Renzi si faceva beffe di Conte e dei giallorossi, ma i suoi più fedeli collaboratori non nascondevano l’ambizione di portare a palazzo Chigi «il più bravo di tutti», il silenzio di Draghi aveva colpito. Sarebbe bastato far filtrare dalla sua tenuta di Città delle Pieve un diniego, la volontà di non essere tirato per la giacca, che il gioco si sarebbe interrotto. E invece il banchiere è rimasto immobile, silenzio assoluto. In attesa. Mentre Goffredo Bettini aveva chiesto giorni fa di «non tirare per la giacca una personalità come Draghi». Quasi una preghiera.

Lui invece, 73 anni, una lunga lista di lauree ad honorem, è in campo. Con il suo celeberrimo «Whatever it takes» nel 2012 salvò l’euro. Nell’ottobre del 2019, quando lasciò la Bce, a domanda sul futuro rispose con vezzo: «Chiedete a mia moglie». Ora è chiamato al capezzale di un paese stremato.