Venticinque anni dopo il trionfo elettorale che il 27 marzo 1994 cambiò la storia d’Italia Silvio Berlusconi si trova di nuovo di fronte a una scelta le cui conseguenze andranno comunque oltre la sua sorte nell’ultimo scorcio di carriera politica: confermare o rimangiarsi l’impegno a candidarsi alle prossime elezioni europee come capolista in quattro circoscrizioni su cinque, evitando solo di fare ombra al delfino di turno, Antonio Tajani, nell’Italia centrale.

Fosse per lui il Cavaliere non avrebbe dubbi. Non solo perché è convinto da sempre di essere il solo a poter fare la differenza in campagna elettorale ma anche, e forse soprattutto, perché ancora gli brucia l’umiliazione della cacciata dal parlamento. Ritiene di non essere stato davvero riabilitato. Vuole delegare il compito agli elettori e tornare con tutti gli onori in parlamento, sia pure a Strasburgo e non a Roma. Ma le pressioni per convincerlo a ripensarci sono martellanti. Il rischio è evidente e innegabile. Non riguarda tanto i risultati del partito azzurro quanto quelli del fondatore e leader. Se le preferenze crollassero e il sovrano di Arcore venisse non solo battuto ma surclassato dal ruvido capo leghista sarebbe la certificazione di un declino già passato in giudicato: il viatico per quell’uscita di scena che Matteo Salvini aspetta pazientemente, deciso a non riproporre a livello nazionale l’alleanza di centrodestra che pure spopola alle regionali finché Berlusconi non sarà fuori gioco. Sono in molti a consigliargli il passo indietro, sia nel partito che nell’azienda e in famiglia, dove la figlia Marina sarebbe tra le più contrarie alla nuova sfida, forse anche per comprensibili preoccupazioni di salute.

A insistere perché Berlusconi confermi la candidatura sono gli azzurri più ostili al dominio del leader leghista, come le capogruppo Bernini e Gelmini. Neppure quell’ala forzista si nasconde il rischio, ma ritiene che evitare lo scontro diretto con Salvini sarebbe anche più pericoloso. In quel caso, infatti, sarebbe lo stesso Berlusconi ad ammettere l’impossibilità di giocare ancora un ruolo centrale. A quel punto l’esplosione del partito azzurro, in caso di risultato elettorale sconfortante sarebbe inevitabile. L’ala “leghista” di Forza Italia, che non a caso è quella che più spinge per evitare la candidatura del capo, darebbe vita a quel «nuovo partito di destra» al quale starebbero lavorando Toti e i salviniani, magari accorpando anche FdI. Non si può dar torto a chi sostiene che in fondo una cosa è uscire dal partito di Tajani, tutt’altra lasciare quello di Berlusconi. Ma perché Forza Italia resti a tutti gli effetti il partito di Berlusconi è necessaria una nuova «discesa in campo».

Sabato prossimo, nel corso della kermesse romana con la quale Fi aprirà la campagna per le europee, Berlusconi risolverà il dilemma. Pare che si prepari a una performance in grande stile, con un discorso lungo e impegnato forse in apertura o forse in chiusura delle assise. Come sempre deciderà da solo e all’ultimo momento. Il carattere dell’uomo e la fiducia in se stesso che è sempre stata la sua dote politica principale, fanno pendere la bilancia a favore della candidatura. Anche perché il risultato delle elezioni in Basilicata non lo sconsiglia: le liste centriste, nelle quali figuravano parecchi esponenti forzisti e che erano a tutti gli effetti liste di fiancheggiamento, sono intorno al 17%, dunque poco al di sotto della Lega. La Basilicata non è l’Italia, ma l’effetto psicologico avrà il suo peso nella scelta. Alla fine, nonostante i rischi, è probabile che Berlusconi decida di combattere l’ultima battaglia.