Curi, confrontarsi con Dio da Giobbe a Bach
Jusepe de Ribera (attr.), Giobbe, 1630-1640, Parma, Pilotta
Alias Domenica

Curi, confrontarsi con Dio da Giobbe a Bach

Saggista filosofica In poesia come in musica, il silenzio assume un significato quasi sempre frainteso o trascurato. È questo l’epilogo dell’indagine compatta di Umberto Curi: Parlare con Dio, per Bollati Boringhieri
Pubblicato 4 mesi faEdizione del 23 giugno 2024

All’enorme sfida indicata dal titolo corrisponde un saggio di circa 150 pagine, in formato ridotto: Parlare con Dio di Umberto Curi, professore emerito di Storia della Filosofia all’Università di Padova (Bollati Boringhieri «Temi», euro 15,00). Il libro è suddiviso in otto capitoletti, da «Le dieci parole» – una riflessione sul racconto dell’incontro tra il Signore e Mosè – a «Le beatitudini» (vangeli di Matteo e di Luca); da «Luce che illumina le genti» – sulla nozione di tempo nell’Apocalissi giovannea – sino a «La morte di Dio» e a «Parlare di Dio». A conclusione c’è un «Epilogo» sul silenzio, che, in poesia come in musica assume un significato fondamentale – quasi sempre trascurato o frainteso – lasciando intravedere, per un attimo, l’abisso che inghiotte certe situazioni e certe espressioni divenute, col tempo, luogo comune.

Il sottotitolo parla di un’indagine fra filosofia e teologia. Ma la definizione è, in un certo modo, restrittiva, nel senso che l’accezione metafisica si stempera in un’analisi di dati concreti, di frasi immortali rivisitate ex novo e ricondotte al livello di lucida razionalità. Nulla di nuovo eppure tutto appare nuovo grazie al rilievo che la più antica delle storie assume se còlta da una prospettiva diversa che conferisce alla «lettera» delle parole un significato insieme realistico e profondamente etico.
Storie antichissime e risapute, dicevo, ma cristallizzate nei secoli in una visione unica e spesso restrittiva.

Giobbe, ad esempio. «Straziato dalla sofferenza» per sette giorni e sette notti, è generalmente classificato come vittima di una sopportazione oltre ogni limite, un simbolo della pazienza e dell’accettazione, un eroe della fede. Ma il silenzio che comunemente caratterizza l’accettazione è rotto dal grido finale di Giobbe: non un’accusa, non una ribellione, ma la richiesta di un confronto diretto con Dio. Dio «chiamato in causa», Dio «citato in giudizio», e una conclusione che gli antichi Greci elevano a sentenza inderogabile: l’impossibilità di conoscere l’inconoscibile.

Non più parole, un grido – che prelude a quel «colmo di parole» che è il grido di Cristo sulla croce. Al grido di Giobbe corrisponde il silenzio di Abramo, lui sì vero «eroe della fede», Abramo che non cerca di comprendere ma «crede per assurdo»: ed è qui che «incomincia la fede, dove finisce la ragione». L’autore ribadisce quindi l’interpretazione di Kierkegaard che sposta da Giobbe ad Abramo l’appellativo di «eroe della fede». Lo scarto che viene a crearsi tra le due figure perdura ancora oggi in un contrasto irrisolvibile.

Il discorso si fa più complesso quando vengono chiamati in causa i sentimenti. Prima di affrontare l’argomento, mi sento in dovere di confessare che filosofia e teologia non sono il mio campo, quindi la mia interpretazione sarà necessariamente limitata se non addirittura errata.

Il capitolo sulla «Misericordia» mette a confronto l’éleos greco e quello cristiano ponendo al centro la parabola del Buon Samaritano. L’analisi di Curi in questo caso scende nel cuore dei termini usati per narrare la parabola e li scandisce nel loro significato ultimo, giungendo a sottolinearne il valore implicito e le sostanziali differenze. Misericordia come identificazione con l’altro da sé, misericordia come rinuncia di sé a favore dell’altro: misericordia che – qui si cita Simone Weil – «colma l’abisso che la creazione ha stabilito tra Dio e la creatura». Dal tema della misericordia scaturiscono i confronti tra misericordia e legge, giudizio e condanna, colpa e pena – per approdare infine al difficile concetto del perdono.

Qui il problema si complica, pena e colpa possono essere discusse e portare a soluzioni accettabili, ma quando il perdono si scontra con l’imperdonabile – in questo caso il genocidio – il contrasto tra gli studiosi (es. Hannah Arendt, Jurgen Habermas ecc.) diventa disputa , provoca accesi dibattiti , di fronte ai quali Jacques Derrida si pone come colui che più si avvicina a ciò che Cristo ha voluto dimostrare: che si può perdonare l’imperdonabile con la sovrabbondanza della misericordia.

L’imperdonabile può dunque essere perdonato, ma l’ineffabile? L’ascesa verso il Golgota, il graduale distacco da tutto ciò che è stata l’esperienza tra gli uomini, il prima e il dopo, il percorso della Passione, la morte. Con rara suggestione l’autore segue le pene fisiche e spirituali del figlio di Dio: il supplizio fisico, la sofferenza della carne; ma anche la paura, l’angoscia dell’abbandono, la solitudine; il perílypos che avvolge il Cristo (termine tanto più espressivo del tristis latino). Il dolore: non quello che produce conoscenza, come volevano i Greci, ma quello che unisce in sé «l’abisso del patimento» e «la luce del riscatto». La Croce è il simbolo ineliminabile di tutto questo. E non c’è lógos che possa restituire la potenza di questo Todeskampf, il combattimento supremo con la morte – l’enigma (perché tale rimane) della Croce.

Dove il lógos fallisce, subentrano le arti: arti figurative, cinema, musica. È sulla musica che vorrei soffermarmi, perché è mia personale convinzione che la musica – a sua volta ineffabile e assoluta – sia il tramite più potente per «dire» la Passione. Dove la parola si rarefà, irrompe la musica: ed è sulla Matthäus-Passion di Bach che si chiude questo straordinario capitolo dedicato a «La morte di Dio». Bach, a sua volta ineffabile fra i musici, affronta il mistero con la pienezza di una «forma» che lascia alla fine intravedere la luce di quella trascendenza che sostituisce l’«evento» irrisolvibile della vita umana.

Con il corale finale della Passion chiudo queste poche osservazioni che non rendono l’idea del saggio di Umberto Curi, compatto e controllato, ma ricco di osservazioni originali e di chiarimenti necessari per un approccio sereno e severo con Dio. «Il resto è silenzio», si potrebbe dire con Shakespeare. Ed è proprio questo, il silenzio su cui insiste sant’Agostino, l’«evento» che racchiude in sé il pieno dell’esperienza mistica: ascoltare il riflesso che la musica ha introdotto nell’anima, ritornare in se stessi per cogliere – sia pure nell’attimo – la luce della verità.

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