La mozione del Comitato Nazionale di Bioetica circa l’accanimento clinico (o cure futili) sui bambini piccoli, di recente approvata, è stata accolta con interesse. C’è stato, è vero, qualche isolato commento negativo che ha riproposto la coincidenza della rinuncia all’accanimento clinico con l’eutanasia, di fatto negando alla radice il concetto stesso (e la realtà) dell’accanimento; ma perlopiù la mozione è stata apprezzata perché imposta nei termini giusti la delicata problematica per una migliore comprensione da parte dell’opinione pubblica. È un contributo importante, se pensiamo al peso della disinformazione nella drammatica vicenda di Alfie Evans, che ha permesso di accusare di “volontà di uccidere” i medici dell’ospedale per la decisione di sospendere la ventilazione artificiale e passare alle cure palliative. In più, il documento avanza molte raccomandazioni utili ad affrontare le situazioni concrete e a comporre gli eventuali conflitti: dalla promozione di comitati per l’etica clinica negli ospedali pediatrici, per garantire uno spazio di riflessione e di dialogo fra medici e genitori; alla richiesta che i piccoli pazienti possano usufruire sempre e ovunque di cure palliative; all’invito a ricercare la mediazione fra medici e genitori, prevedendo il ricorso ai giudici “solo come extrema ratio”.

Riprendo alcuni punti che considero cruciali: in primo luogo, la descrizione dello scenario entro cui si colloca l’accanimento clinico sui bambini. Da un lato i medici si trovano oggi ad affrontare più di frequente malattie rare “associate spesso a disabilità permanenti e a volte alla perdita della vita in tempi brevi”; dall’altro, dispongono di tecnologie sofisticate, che permettono di tenere in vita persone fino a poco tempo fa destinate alla morte. E infatti, come specifica la mozione, sempre più spesso l’accanimento clinico si traduce in accanimento tecnologico. Dunque, l’avanzamento tecnologico ridefinisce lo scenario della moderna medicina e insieme i suoi dilemmi etici. Ciò in quanto le tecnologie “creano” situazioni al “limite”, fra la vita e la morte, o sarebbe meglio dire fra la vita e una non-vita, ormai priva di relazionalità. Una parvenza di vita insomma “che in passato era considerata una disgrazia come evento naturale e che oggi invece viene attivamente data”: così scriveva a suo tempo Marina Rossanda, anestesista impegnata in rianimazione, chiamando alla responsabilità nella ricerca di un’etica del limite.

Una responsabilità che si aggrava quando si tratta di bambini piccoli che non hanno la capacità di esprimersi e a volte neppure di manifestare la sofferenza. Qui sta il nodo più difficile e doloroso da sciogliere. Per definire l’accanimento (o, come anche si dice, il trattamento “sproporzionato” o futile) entrano in campo sia aspetti clinici oggettivi, quando si constata l’inefficacia dei trattamenti rispetto alla malattia; sia aspetti soggettivi, quando il paziente non vede migliorata la sua qualità di vita, ma anzi registra che i trattamenti contribuiscono alla sua sofferenza (come nel caso di tecnologie invasive). Quando si tratta di malattie incurabili o comunque di persone che hanno davanti un tempo limitato e penoso di vita, la definizione di accanimento sta largamente nelle mani del paziente, che può rifiutare le cure. Per i bambini invece viene a mancare l’elemento soggettivo, spesso determinante per decidere la futilità delle cure.

La mozione auspica che l’accanimento sia determinato “attraverso dati scientifici e clinici il più possibile oggettivi”. Tuttavia, dobbiamo essere consapevoli che nella gran parte dei casi stabilire la sproporzione di un trattamento nel miglior interesse del bambino ricadrà su coloro che si prendono concretamente cura di lui/di lei. Non lasciarli soli è un atto di responsabilità sociale, da qui il richiamo alla consapevolezza, di tutti e di tutte.