Gianni Cuperlo, l’Italia ha deciso di mandare armi in Ucraina, crede sia una scelta saggia?

Una guerra è per antitesi negazione della saggezza. In questo caso siamo dinanzi all’invasione di uno stato sovrano da parte di un esercito che sta colpendo città e civili. Le vittime sono centinaia, forse migliaia. Il popolo e il governo ucraini stanno resistendo in uno squilibrio di forze e mezzi. L’Europa e l’Italia hanno reagito con sanzioni economiche, l’invio di farmaci, l’accoglienza dei profughi. Dal governo di Kiev è giunta anche la richiesta di sostegno militare e di fronte a questo c’erano due strade. Negare quel sostegno in nome del principio che rifiuta la logica delle armi perché conduce sempre e solo a una spirale di guerra più intensa, oppure accettare la richiesta del paese aggredito e aiutarlo a difendersi. Non ho alcuna autorevolezza politica o morale per dispensare verità, dico però che di fronte a vittime innocenti considero la seconda strada legittima perché rientra nel diritto di un popolo a proteggersi e preservare la propria indipendenza e sovranità.

La linea del Pd in questi giorni è molto muscolare. L’ex ministro Pinotti ha detto che anche gli alleati diedero armi ai nostri partigiani. Ma in quel caso gli alleati erano esplicitamente in guerra contro i tedeschi.

Lascerei riposare la storia e non la trascinerei nella cronaca tragica di ora. Per arrivare a una tregua, che è l’obiettivo principale, non si deve rinunciare a imboccare il sentiero, oggi strettissimo, che mira a un cessate il fuoco e a un negoziato che porti al ritiro delle truppe russe dal paese. Offrire ogni sostegno all’Ucraina usando un ventaglio di azioni è anche il modo per premere su Mosca affinché receda dalla strategia seguita finora.

Si può affermare che con l’invio di armi l’Italia è co-belligerante?

Ritengo che tutto quello che l’Europa sta facendo rientra nel tentativo di arrivare il prima possibile a un cessate il fuoco. L’invio delle armi è uno strumento di pressione che rientra in una condizione di assoluta eccezionalità. Dopo il voto dell’altro giorno spetta al nostro Parlamento vigilare sulla applicazione di quelle decisioni, a partire dalla destinazione di quelle armi, sapendo che in Ucraina agiscono formazioni apertamente neofasciste, e assieme chiedere alle istituzioni europee di operare per la ripresa delle trattative.

Letta ha fatto riferimento alla ex Jugoslavia. «Questa volta non ci volteremo dall’altra parte». Lo ritiene un paragone adeguato?

I Balcani sono una macchia nera e indelebile sulla coscienza dell’Europa. Basta tornare a Srebrenica, luglio 1995, e al massacro di ottomila maschi musulmani bosniaci. I caschi blu chiesero in modo pressante un’azione dissuasiva della Nato verso le truppe serbe del generale Mladic. La reazione non vi fu e la domanda se migliaia di vite si sarebbero potute salvare rimane come monito a non ripetere quei tragici errori.

Il nostro paese e la UE stentano a trovare un ruolo diplomatico nel favorire il cessate il fuoco. Si potrebbe fare qualcosa di più?

Credo che la via della diplomazia non si debba mai interrompere e l’unità con cui si è mossa l’Europa in questo frangente è un valore in sé. Detto ciò penso anche che si poteva e doveva fare di più prima, quando di Putin si conoscevano le torsioni verso un neo nazionalismo autoritario che aveva già portato all’annessione di Crimea e Georgia. Chi era Putin si sapeva ma gli interessi economici venivano prima.

Lei ha appena pubblicato «Rinascimento europeo». Come incide questo conflitto nel processo di costruzione europea?

Il 24 febbraio di quest’anno ha cambiato l’Europa, la percezione della sua sicurezza e questo carica di significato il “dopo” perché è l’ordine stesso che abbiamo conosciuto a imporre scelte ambiziose nell’immediato e sulla prospettiva, ma va fatto nello spirito di una nuova Helsinki, non di una nuova guerra fredda. L’Europa non uscirà più debole se le sue leadership avranno lo stesso coraggio di chi dopo le tragedie del ‘900 seppe mutare le categorie della storia e concepire l’integrazione economica come leva di una progressiva unità politica attorno a valori comuni. Oggi la sfida si ripropone in rapporto a una difesa europea e alla ricostruzione di un rapporto con la Russia oltre il nazionalismo incarnato da Putin.

L’espansione della Nato a est è stata imprudente? Quali sono stati i principali errori dell’occidente dopo il crollo dell’impero sovietico?

Detto che l’ingresso dell’Ucraina nella Nato non era all’ordine del giorno, l’imprudenza è stata nel non aver tenuto conto delle spinte e pulsioni anche in tema di sicurezza che provenivano dalla Russia, a dirlo non sono degli amici di Putin, ma i principali analisti di quello scenario anche negli Stati Uniti.

Ritiene realistico un cambio di regime in Russia anche a seguito delle sanzioni e delle difficoltà dell’operazione militare?

Penso che le sanzioni avranno un effetto pesante, anche se sulla decisione di uscita delle banche russe dallo Swift bisogna tener conto che Mosca almeno dal 2014 si è attrezzata con circuiti alternativi. Sono colpito dal fatto che anche nei giorni drammatici dell’invasione, a Mosca e in altre città vi sono state manifestazioni di dissenso partecipate. Se le persone scendono in piazza a proprio rischio vuol dire che una opposizione c’è e va sostenuta.