Addio agli aerei da guerra, e tanti bei soldini per i lavoratori. «Per la prima volta domani sarà messa nelle tasche degli italiani una significativa quantità di denaro», ha detto ieri il premier all’assemblea del Pd. E si fa sempre più concreta l’ipotesi che a finanziare il «piano Renzi» per rimpinguare le buste paga degli italiani, sarà un bel taglio agli F35. Velivoli portatori di morte, contestati da tanta parte della sinistra e dai pacifisti, ma anche ritenuti tecnicamente quasi un bidone dallo stesso Pentagono: il che li aveva fatti cadere dal cuore anche dei più guerrafondai. Ma mai tanto da annullare l’ordine, il cui valore si aggira intorno ai 14-15 miliardi di euro: eppure il governo Monti aveva già dato una bella sforbiciata, riducendo l’acquisto da 130 a 90. Ma evidentemente non basta ancora.

È notizia di ieri, filtrata da ambienti bene informati, che il governo italiano si è rivolto al Dipartimento di Stato Usa, per ridurre ulteriormente l’ordine: non si sa ancora a quanti aerei si scenderebbe, anche perché lo stesso Pd è diviso al suo interno. Un’ala più radicale, guidata da Gian Piero Scanu, sarebbe disponibile addirittura a dimezzarli: scendendo quindi a 45 velivoli, e ricavando così ben 7 miliardi di euro. La maggioranza renziana, però, ci va molto più soft: punterebbe a ottenere dagli 1 ai 2 miliardi di euro, riducendo in questo modo l’ordine di 10-15 macchine da guerra.

Insomma, i numeri per il momento fluttuano, ma certamente il segnale politico sarebbe forte, se davvero si arrivasse a tagliare la fornitura: purtroppo, però, va detto anche che il beneficio economico non avrebbe un impatto altrettanto imponente. Va ricordato infatti che la spesa relativa agli F35 viene spalmata nei prossimi 11 anni, fino al 2025, e quindi se anche si riducesse fino a metà l’ordine, Renzi non avrebbe subito disponibili i 7 miliardi di euro di risparmio. Per il primo anno, si avrebbero – a bocce ferme – dai 200 ai 700 milioni di euro, a seconda dell’entità della misura.

Risorse che comunque, in tempi di magra, certo non sono poca cosa. Ieri tra l’altro l’Istat, in audizione al Senato, ha diffuso nuovi dati sui salari degli italiani, molto in tema: nel 2012 il valore medio del cuneo fiscale e retributivo per i lavoratori dipendenti è stato pari al 49,1% del costo del lavoro. Cioè i dipendenti hanno ricevuto in media 16.153 euro l’anno contro un costo complessivo del lavoro di 31.719 euro.

In poche parole, il fisco trattiene metà di quello che l’impresa spende per il lavoratore. I contributi sociali rappresentano la componente più elevata del cuneo (28% a carico del datore di lavoro e 6,7% a carico del lavoratore). Ai lavoratori, inoltre, vengono trattenute le imposte sul reddito (14,5%) inclusive dell’Irpef e delle addizionali regionali e comunali. Spese certo necessarie, perché finanziano la previdenza e – attraverso gli enti locali – molte prestazioni sociali e di servizio. Ma certo, un equo riequilibrio fiscale dovrebbe reperire le risorse per il sociale da altre voci, come ad esempio le rendite o i patrimoni.

Intanto il pressing di industriali e sindacati per avere il taglio ciascuno dalla parte propria, è continuato. Giorgio Squinzi, presidente di Confindustria, ha parlato attraverso una lettera al Corriere della sera: «Sarebbe interessante – scrive il leader degli industriali – chiedere agli italiani se vogliono un lavoro o qualche decina di euro in più in tasca». Chiaro l’invito a destinare i 10 miliardi (o quanti saranno) al taglio dell’Irap, per favorire le assunzioni, piuttosto che all’Irpef, che appunto beneficia i salari.

«Cresceremo se il costo delle nostre imprese sarà confrontabile con quello dei nostri diretti concorrenti – ha continuato Squinzi – Se le regole del fare impresa saranno poche, rigorose e comprensibili». Confindustria chiede poi forme contrattuali più flessibili, «all’ingresso come all’uscita. Togliamo i pesi e le complicazioni inutili della riforma Fornero». Infine una richiesta degli imprenditori diretta allo Stato: «Pagare i propri debiti e pagarli in tempi corretti».

Ma ormai, viste anche le parole di Renzi ieri, pare che il governo propenda di più per il taglio dell’Irpef: dichiarazioni dei giorni scorsi, anche da parte di esponenti di primo piano di Ncd come Angelino Alfano o Maurizio Lupi, confermerebbero questa indicazione. Va stabilito a questo punto: 1) se tutto andrà alle buste paga, o se comunque una parte verrà in qualche modo destinata a ridurre i costi delle imprese; 2) la platea dei lavoratori interessati (meno sono, più sostanzioso è il taglio alla singola busta); 3) le fonti di finanziamento.

Sembra comunque ormai quasi certo che il taglio si indirizzerà verso i redditi medio-bassi: concentrandosi nella fascia tra gli 8 e i 15 mila euro annui (sotto gli 8 mila si resterebbe esentati dal pagare le tasse), e con un beneficio che andrebbe dai 450-500 euro annui, fino a 800 euro (quindi, al mese, tra i 40 e i 66 euro). Nell’ipotesi migliore, sommati ai 14 di Letta, si andrebbe a 80: non siamo ai 100 euro sperati, ma vicini. Dai 15 mila a 55 mila euro sarebbero ugualmente previsti benefici, ma via via minori.

Il consiglio dei ministri di oggi chiarirà. Dal fronte della Cgil, è arrivato un netto no all’ipotesi circolata di ridurre gli stipendi dei dipendenti pubblici per trovare le coperture: «Con il blocco dei contratti hanno già perso 9 miliardi». Mentre Maurizio Landini, della Fiom, ha già apprezzato il rifinanziamento dei contratti di solidarietà che il governo ha concesso in merito al caso Electrolux.