Ricordando una passeggiata con Walter Otto nei dintorni di Cnosso, Karl Kerényi ha scritto che il mondo cretese è «un mondo di animali e di piante, di epifanie divine sui monti e sotto i fiori, di apparizioni provenienti dal cielo». E aggiungeva che gli dèi a Creta possono mostrarsi dappertutto, anche «in uno sciame di insetti, in uno stormo di uccelli» o «in un gruppo di animali marini». In effetti non è semplice scegliere un solo simbolo per l’isola che proprio Kerényi chiamava semplicemente «sacra». Noi arrivati tardi – noi moderni – girovagando distrattamente per la capitale, Heraklion, potremmo anche pescare fra i segni della Storia, e eleggere a emblema il leone, emanazione del potere veneziano. Sono i leoni, infatti, a dominare la piazza centrale, dedicata a Eleutherios Venizelos: troneggiano sul marmo della Fontana Morosini, costruita nel 1628 – per opera del comandante di cui la fontana porta il nome – qualche decennio prima che la bandiera di San Marco cedesse per sempre, all’arrivo dei Turchi.
La grande miniera del Mito, invece, ci farebbe immediatamente pensare al toro. È a Gortina, nel sud dell’isola, che uno Zeus-toro si unisce a Europa e genera Minosse, il futuro re. Ed è sempre il toro a ritornare continuamente negli affreschi riemersi dagli scavi del palazzo di Cnosso, condotti da un signore inglese, già curatore dell’Ashmolean Museum di Oxford e destinato a una fama magari discussa, ma immortale: Sir Arthur Evans. Una testa di toro, ancora oggi, campeggia nella sala della biblioteca di Villa Ariadne, l’edificio che proprio Evans fece costruire nel 1906, a fianco del sito archeologico, e che divenne il suo alloggio durante la permanenza a Creta. Eppure quando, nel 1921, pubblica il primo volume del suo resoconto cretese – The Palace of Minos at Cnossos, edito a Londra da MacMillan – Evans sceglie come insegna tutt’altro animale, tutt’altro vessillo. Il frontespizio del libro ospita l’immagine – una fotografia frontale, replicata di profilo – di una statuetta, che la didascalia presenta come una «faience figure of snake goddess», la figura in maiolica di una dea dei serpenti. Tre serpenti sono infatti avvolti a spirale attorno a lei: di uno, che le corre sinuoso attorno alle spalle, la dea tiene la coda nella mano sinistra, mentre ne stringe la testa con l’altra mano.
La statuetta è alta poco più di trenta centimetri. Invano si cercheranno, a Creta, i resti di una statuaria paragonabile a quella di altri luoghi e di altri momenti della storia ellenica. Si può arrivare, al massimo, ai cinquanta centimetri di un kouros, una figura maschile ritrovata nei pressi di Palaikastro, nel sud-est dell’isola. Viene in mente una pagina di Fernand Braudel, nelle sue splendide Memorie del Mediterraneo, che addita la scultura come un ambito nel quale i cretesi non si trovano a loro agio, forse perché – annota Braudel – proprio la scultura «offre maggior resistenza ai giochi dell’immaginazione»: un esercizio di realismo, insomma, che sembra non piacere alla mente fantasiosa che da sempre abita quest’isola. Del resto, già le favole antiche ci suggeriscono che la mente cretese preferisce il piccolo – il dettaglio – al grande, al monumentale: Dedalo è certamente, per il mito, l’inventore di statue dalle sembianze umane, o il grande architetto del Labirinto, ma è anche colui che riesce a far passare un filo sottilissimo fra le strette volute di una conchiglia, legandolo a una formica.
Negli East Repository, nei magazzini orientali del palazzo di Cnosso, Sir Evans rinviene quelli che nel suo diario di scavo ribattezza come objets d’art, lavorati con straordinaria finezza. Fra questi ci sono anche altre due divinità femminili. La più famosa, oggi, è una statuetta ancora più minuta della prima: una piccola dea che guarda avanti a sé con gli occhi spalancati e con il seno scoperto, e indossa una specie di grembiule che scende sopra un largo vestito a balze. Sulla sua testa, sopra un copricapo ricamato con rosette, sta accovacciato un felino, probabilmente un gatto. Soprattutto, la dea regge in ciascuna delle due mani un serpente. Questa immagine femminile riemerge dalle profondità originarie della Grecia, è databile a circa 1600 anni prima di Cristo. E segnerà profondamente l’idea novecentesca del mondo arcaico, tanto che nel 1954, in un film fortunatissimo come l’Ulisse di Mario Camerini, la giovane Nausicaa – la figlia del re dei Feaci, impersonata da Rossana Podestà – e le sue ancelle indossano un vestito che è una citazione precisa della dea dei serpenti.
Di queste statuette divine Evans ritrova, in realtà, i resti scomposti, e deve intervenire con un’opera di restauro, nel quale è coadiuvato da Halvor Bagge, un pittore e artigiano danese. Sir Arthur mette presto le mani avanti, nel suo libro, parlando delle varie «lacune» che si è trovato a dover sanare scavando e ricostruendo l’ambiente minoico, e ammettendo che «every step forward was in the dark», ogni passo avanti era un passo nel buio. Si sa che la scienza archeologica non è poi stata tenera con Evans (Cesare Brandi, per fare solo un nome, parlava per Cnosso di una «sfacciata coreografia», di una sorta di lesa maestà filologica). E anche sulla dea dei serpenti gli studiosi sembrano dividersi. C’è chi pensa addirittura che quelli che la dea tiene nelle mani non siano serpi, ma pezzi di corda, e che quella cui assistiamo guardandola non sia altro che la scena di uno svelamento: una divinità che si spoglia, i cui più antichi modelli potrebbero arrivare dalla Siria. Altri invece – per esempio Louis Godart – tendono a prendere più sul serio la snake goddess, ricordando l’associazione fra il gatto e il serpente nella cultura egiziana, ovvero la lotta fra una divinità solare e una divinità ctonia, insomma una grande allegoria dello scontro fra il Bene e il Male: ne ritrovano gli stessi esponenti nel felino e nel serpente che fanno da attributi della nostra dea (e fu proprio Evans il primo a sottolineare il legame di questi oggetti con l’Egitto).
Si potrebbe anche insinuare il sospetto di una manomissione più gentile, da parte di Evans: l’idea che quei due pezzettini di maiolica siano, in fondo, anche un omaggio, magari inconsapevole, alla propria infanzia, perché i suoi biografi ricordano che sir Arthur giocava con i serpenti sin da bambino, ed era in grado di distinguerne tipi, qualità, colori. Descrivendo il ritrovamento della statuetta e riflettendo sulla sua simbologia, Evans ricordava peraltro i serpenti addomesticati e trattati come animali domestici in Bosnia e in Serbia (nel 1877 lui stesso aveva pubblicato le pagine di un suo viaggio slavo, compiuto due anni prima). È suggestivo pensare che nel 1923 – solo due anni dopo il libro di Evans sul palazzo di Cnosso – Aby Warburg rifletteva nel suo Rituale del serpente sul valore sciamanico dell’animale, raccontando del serpente degli indiani Pueblo e dei rituali di fertilità cui presiedeva (un serpente-fulmine, rappresentato in posa violentemente verticale, zigzagante, un po’ come quelli che stanno nelle mani della dea…). E anche quello della dea cretese è un serpente domestico, un signore della casa, un angelo custode infero e inquietante, eppure intrecciato – così pare – al culto minoico della Grande Madre.
Sia come sia, anche grazie alla misteriosa statuetta il serpente siede a buon diritto nel pantheon cretese, e la memoria della sua presenza è coriacea: in fondo già Ercole – l’eroe che dà il nome alla capitale – era anche uno strangolatore di rettili. Intanto, non lontano dal Museo Archeologico della città – mentre da una piccola teca di vetro la dea corrisponde imperterrita agli sguardi dei suoi visitatori –, la cattedrale di Heraklion continua a stagliarsi luminosa in una piazza ombreggiata dalle palme. Il suo patrono è Agios Titos, San Tito: primo vescovo dell’isola per volontà di San Paolo, festeggiato ogni anno il 25 agosto, al culmine dell’estate. Qui qualche vecchio ricorda ancora che fu proprio lui – Tito – a liberare Creta dai serpenti velenosi.