Ha ammesso egli stesso di essere un ex carabiniere in congedo e dunque di non essere idoneo a giudicare gli otto graduati dell’Arma accusati a vario titolo di aver coperto la verità e di aver depistato le indagini sulla morte di Stefano Cucchi. Perciò il giudice Federico Bona Galvagno si è astenuto, ieri, accettando l’istanza avanzata dalla famiglia del giovane geometra romano. A questo punto il processo inizierà il 16 dicembre prossimo, ma già si prevede una temperatura altissima nelle aule di Piazzale Clodio dove i difensori del generale Alessandro Casarsa, il più alto in grado degli otto imputati, hanno presentato nella lista dei testi tra gli altri il generale Vittorio Tomasone, all’epoca numero uno del Comando provinciale, e addirittura il sostituto procuratore Vincenzo Barba, il primo pm che si è occupato del caso.

Il magistrato romano condusse però indagini che hanno portato su una pista ritenuta sbagliata evidentemente non solo dalla famiglia Cucchi, non a caso ritiratasi dal primo processo, quello ai cinque medici dell’ospedale Pertini che domani arriverà alla terza sentenza in Corte d’Appello, dopo due rinvii della Cassazione per annullamento delle assoluzioni. E per uscire da quel vicolo cieco che non voleva affrontare il nodo di “pestaggio di Stato” tenuto nascosto per dieci lunghissimi anni, ci volle la determinazione di una famiglia, la tenacia di una sorella e l’impegno del procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone e del pm Giovanni Musarò.

Un impegno che invece per l’avvocata Maria Lampitella, difensore di Raffaele D’Alessandro, uno dei due carabinieri accusati di omicidio preterintenzionale nel processo bis, è un «elefantismo investigativo arrivato a livelli inammissibili». Dice proprio così, l’avvocata, nella sua arringa finale pronunciata ieri nell’aula bunker di Rebibbia, prima della sentenza prevista sempre per domani. E ammette candidamente di avere «un’unica remora: avrei dovuto chiedere – afferma l’avvocata Lampitella – il rito abbreviato per il mio assistito, prima che il pm Musarò cambiasse il capo d’imputazione da lesioni a omicidio», in seguito alla testimonianza di esperti medico-legali .

SONO ORE DECISIVE dunque, queste, per una famiglia che si dice «allo stremo delle forze». Lo scrive su Facebook Ilaria Cucchi: «Mamma e papà sanno già di essere condannati all’ergastolo di processi che si protrarranno fino alla fine della loro vita». La giornata di ieri però è stata proficua per due ragioni: per l’astensione ottenuta dal giudice Bona Galvagno e per l’ammissione del pestaggio da parte degli stessi difensori dei principali imputati del processo bis. Nessuno più ormai mette in dubbio l’esatta dinamica degli eventi, nessuno nega più le violenze. Semmai quel che gli avvocati di Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro – gli unici imputati ad essere accusati di omicidio preterintenzionale e per i quali la procura ha chiesto 18 anni di carcere (mentre Francesco Tedesco, Roberto Mandolini e Vincenzo Nicolardi devono rispondere a vario titolo dell’accusa di falso) – hanno tentato di dimostrare nelle loro arringhe difensive è che non c’è alcun nesso di causalità tra le botte subite dal giovane arrestato per spaccio la notte del 15 ottobre 2009 e la sua morte avvenuta il 22 ottobre.

È UN MOMENTO DELICATO, perché la prima Corte d’Assise deciderà domani se riconoscere che il «pestaggio degno di teppisti da stadio» era stato eseguito dai due carabinieri senza preoccuparsi delle conseguenze potenzialmente mortali, come sostiene il pm Giovanni Musarò, o se dare ragione alle difese che viceversa vorrebbero rigettare la palla nella direzione dalla quale è arrivata e far discendere la morte di Cucchi da «altri eventi intervenuti durante l’ospedalizzazione», come sostenuto dall’avvocata Antonella De Benedictis che difende Alessio Di Bernardo.

Secondo la legale, deve essere riconosciuto «il disvalore penale della condotta» dei due carabinieri-picchiatori. Inoltre, dice l’avvocata, «se è vero che la lesione alla colonna ha causato la vescica neurologica, bisogna ammettere però che il globo vescicale, causa della morte, si è creato dopo, per colpa di un infermiere. Nel momento in cui il catetere è stato inserito – conclude l’avvocata – automaticamente si è interrotto il nesso tra il pestaggio e la morte». La richiesta per D’Alessandro e Di Bernardo è, naturalmente, di assoluzione o in subordine la derubricazione del reato in lesioni, le attenuanti e il minimo della pena.

«Ascoltando i difensori degli imputati che oggi ammettono tranquillamente il pestaggio inflitto a Stefano – scrive Ilaria Cucchi – non posso non pensare quanto esso sia stato ostinatamente negato dal prof. Paolo Arbarello, consulente della Procura nominato per l’autopsia. Non posso non pensare alla prima perizia Grandi – Cattaneo che ipotizzando anche la caduta ha fatto morire mio fratello di fame e di sete. Non posso non pensare al braccio di ferro tra la Corte d’Assise di Appello e la Corte di Cassazione sulla responsabilità dei medici per la sua morte. La prima assolve e riassolve. La seconda annulla e riannulla quelle assoluzioni. Un rimpallo di 4 sentenze». Ora c’è solo da attendere. Domani, 14 novembre.