Nell’agosto di tre anni fa, su un’influente rivista d’arte internazionale, usciva un articolo che cominciava con una provocazione: «Ciascuno di noi ama detestare almeno un artista. La mia personale bestia nera è Stanley Spencer». È vero: i toni terrosi, le figure sgraziatamente monumentali, i temi quotidiani fino a sconfinare nella banalità possono indurre un fastidio profondo in chi passa in rassegna l’opera di Spencer. Ma quest’esordio un po’ snob preludeva in realtà a una riscoperta. L’autore era stato invitato alla riapertura della Sandham Memorial Chapel, al termine dei restauri. Si era ritrovato in una chiesetta che può ospitare poco più di venti persone, immersa nelle campagne inglesi, nei pressi di un villaggio di un migliaio di persone.
Alla fine degli anni venti, quando Spencer aveva affrescato interamente le pareti di quella cappella, la sua era una vicenda orgogliosamente provinciale, con l’addizione dello shock degli orrori della guerra. Fra 1916 e 1918 era stato chiamato infatti a cooperare con le truppe, prima per curare i feriti in un ospedale di Bristol, e poi mandato al fronte a Salonicco, finendo quindi a combattere in trincea e a vedere morire i suoi commilitoni a pochi metri di distanza. L’impressione degli eventi è tale che condizionerà fino in fondo la sua immaginazione figurativa. I coniugi Louis e Mary Behrend commissionano a Spencer, reduce dalla Grecia, di affrescare la cappella, costruita in memoria di un fratello della moglie, Henry Sandham, caduto in seguito a una malattia contratta, anche lì, a Salonicco. Nella speranza di restituire una dimensione umana alla brutalità, come un Giotto povero calato in un ospedale militare, Spencer rivede omoni-soldati, con la faccia immersa nei lavabi o piena di schiuma da barba, bellimbusti che riempiono i bidoni di tè o capitani e commilitoni improvvisamente risorti, fuoriusciti da una colata lavica di croci bianche.
Spencer era nato a Cookham, piccolo borgo sulle sponde del Tamigi, nel 1891. Settimo di undici figli, l’infanzia la dovette trascorrere in un ambiente ovattato, dove è protagonista un paesaggio rivisitato mille volte nei successivi dipinti. La storia industriale non osa infatti toccare questo lembo un po’ sacrale d’Inghilterra, dove la poesia si dà con una semplicità quasi disarmante. Basta un campo di papaveri o un sistema di aiole ordinate, e Spencer tira fuori un quadro intimo e possibilmente delicato, come se fosse visto da un treno in cui siedono i protagonisti di Casa Howard. I preraffaelliti avevano sondato in altra maniera questo microcosmo, rivestendo di una patina da fairy tale quanto accadeva nei cottages. Era già passata un po’ di acqua sotto i ponti.
Alla Slade School of Art
Quando Spencer si iscrive alla Slade School of Art, sono gli anni delle avanguardie storiche. E al netto del confronto con la società della capitale, certe visioni idilliache possono anche divenire spurie. Figurarsi se gli studenti battaglieri degli anni dieci, che si formano a contatto con le novità del cubismo o del futurismo grazie a mostre e riviste, non prendono in giro il ragazzo del villaggio, che ogni sera torna a casa in treno! Il giovane Stanley è basso, porta un caschetto nero e una frangetta pronunciata, di sicuro ben pettinata da una madre o una sorella, e anche nelle foto della maturità la sua iconografia non conosce grandi varianti. Il clima culturale della Londra di quegli anni era scosso da Roger Fry, che riscopriva in un solo tempo Giotto e Cézanne, Giovanni Bellini e i post-impressionisti. Fry insegnava alla Slade, e forse ai suoi corsi Spencer avrà capito che un certo modo nabis di guardare alla natura, nel suo sfrangiarsi di luci e colori, si poteva coniugare con una visione sempreverde della pittura, dove i volumi e le esattezze misurassero il senso conoscitivo della realtà. Un altro professore che conta per Spencer è Henry Tonks, meno aperto alle tendenze parigine, ma più condizionante rispetto agli studenti, che nelle memorie lo ricordano dotato di un’aura irreprensibile. Per questo docente, bisognava andare al British a copiare i disegni degli antichi maestri, se si voleva padroneggiare l’anatomia del corpo umano. Una volta, il fratello di Stanley, anche lui pittore e iscritto alla Slade, era tornato a casa con il morale a terra, perché Tonks lo aveva pesantemente criticato: il docente sosteneva che eseguire un brutto disegno equivalesse a vivere nella menzogna. E ramanzine simili, chiaramente, erano capitate anche a Stan.
Non bisogna però immaginare un isolamento troppo marcato, anche se la partecipazione a dibattiti e cenacoli sarà stata minima. L’interesse per i nuovi orientamenti della pittura sarà stato condotto in silenzio, a serrato confronto con una realtà che aveva già in sé stimoli per nuovi racconti. Nel Garage del 1929, uomini e donne comuni sono indaffarati nel controllare radiatori, nel ricapitolare l’itinerario di viaggio su mappe stradali. Cerchioni, pneumatici e automobili, compressi in uno spazio chiuso, sono soggetti nuovi ma questo attraversamento dell’era moderna non impedisce il mantenimento di certe strutture visive antiche. L’elasticità dei movimenti, come in uno swing, è un’elaborazione personale del fermento delle avanguardie, ma per Spencer non c’è stato bisogno di ubriacature o di ritorni all’ordine.
Proprio alla fine degli anni venti, Spencer inizia a riscuotere i primi successi. Il dramma religioso prosegue con ambientazioni nell’amato paese natale. Un dipinto celebre, alla Tate, specifica proprio, sin dal titolo, che il luogo del sacro accadimento deve essere quello: The Resurrection, Cookham (1923-’27). Il teatro dove si svolgono avvenimenti mentali non può essere scelto a caso. Il paradiso immaginario di Spencer assorbe nudi e corone di fiori, profeti scagliati contro pareti di chiese, come a ricordare che i miracoli si possono anche svolgere in angusti cortiletti. Il dipinto venne esposto a Parigi, da Goupil, lo comprò Duveen, e il critico del Times commentò che era come se un preraffaellita avesse stretto la mano di un cubista.
Serie domestica, le ossessioni
Le tensioni di Spencer mutano poco anche quando, da sposato e con due figli, un incontro amoroso cambia la sua esistenza. Le ossessioni però vengono al pettine: Spencer produce una Serie domestica, dove gli eventi della quotidianità con la moglie si trasformano in monumentali dichiarazioni di odio per la banalità. Scegliere un vestito o Al cassettone (1939) sono dipinti privi del trasporto, che scoppia invece nei ritratti riservati all’amante, Patricia Preece. Una settimana dopo il divorzio dalla prima moglie, Spencer si risposa con la nuova fiamma. E per lui gli anni trenta sono un decennio convulso. Un’insospettabile possibilità di graffiare si impadronisce della sua tavolozza. Sia la famiglia che la natura o il sesso sono figure di una violenza che esplode non appena smette di esercitare il controllo premeditato. La modernità di Spencer è tutta inglese: il secolo di Francis Bacon e di Lucian Freud aveva bisogno di un padre del genere, che insegnasse come la realtà potesse far da fonte di una pittura cruda, disarmante o, a seconda dei giorni, soave. Fra i contemporanei, più che in Europa, forse occorre cercare paralleli nel regionalismo americano, in quell’esattezza cruda da Antologia di Spoon River che affratella pittori dello stampo di Grant Wood e Thomas Hart Benton alle sonorità del blues e all’autarchia paesana di Spencer.