Cos’è accaduto nella notte tra il 24 e il 25 aprile nella piazzetta di Borgo Bainsizza? Ionuz Udila, 17 anni dichiarati, la racconta così: «Eravamo in quattro e tornavamo da una festa, era più o meno l’una e mezza. All’altezza del benzinaio ci si è fermata la macchina e siamo scesi. Mentre cercavamo di farla ripartire abbiamo notato un gruppo di persone che si avvicinava a noi. Erano una quindicina, forse venti, giovani e adulti. C’erano anche delle donne. Ci hanno chiesto: che state a fa’? Abbiamo risposto che ci si era fermata l’auto, non stavamo facendo nulla di male. Ma non ci credevano, ci hanno bloccato dicendo che dovevamo aspettare le guardie. Quando sono arrivate, ci hanno fatto inginocchiare e ci hanno preso a schiaffi. Anche le persone che ci avevano fermato ci picchiavano, erano guidati da un poliziotto che abita lì e che conosciamo, era in borghese, fuori servizio. Dopo dieci minuti un agente ci ha preso le chiavi dell’auto e ci ha detto “ora andate via”. Ma come facevamo ad andarcene senza l’automobile? Abbiamo provato a spingerla, però quando abbiamo ci siamo accorti che quelle persone ci seguivano ancora siamo scappati. Il giorno dopo l’abbiamo ritrovata bruciata».
Ionuz è intimorito. Ci sono voluti diversi giorni perché lui e la sua famiglia, grazie anche al supporto di Cgil, Libera e Legambiente, si convincessero ad andare in questura a Latina per denunciare l’accaduto. Ieri, finalmente, ha ripetuto la sua versione dei fatti alle autorità e consegnato il referto del pronto soccorso. Gli amici che erano con lui la sera del tentato linciaggio invece non hanno voglia di parlare. Sono tutti minorenni e vivono come Ionuz nelle baracche dipinte d’azzurro, fradice d’umidità e puteolenti del campo rom Al Kharama nelle campagne di Borgo Bainsizza, su un fianco della discarica di Borgo Montello. Hanno paura di ripercussioni, avvertono un’ostilità diffusa nei loro confronti e non si sentono garantiti da nessuno, subiscono le botte e tacciono, sopportano le vessazioni e i taglieggiamenti dei boss del campo chinando il capo e pagando, alcuni di loro si prostituiscono a uso e consumo di italianissimi pedofili. Gabriel è uno di loro. Alto, affusolato, capelli corti con un ciuffo biondo davanti agli occhi, ha appena 15 anni. Il due maggio scorso ha dichiarato ai carabinieri della stazione di Borgo Podgora di essere stato agganciato da un uomo che si è offerto di dargli un passaggio fino a Borgo Bainsizza. Quando però si è accorto che non lo stava portando a destinazione lo ha invitato a fermarsi e a farlo scendere. Ha raccontato ai carabinieri: «Questi, pur fermando la macchina nei pressi della discarica, mi toccava le parti intime invitandomi ad avere un rapporto sessuale con lui. Voleva che lo penetrassi». I militari gli hanno sequestrato venti euro, il corrispettivo della prestazione.

Anche Ionuz non voleva parlare. Convincere lui e i suoi familiari non è stato facile. Sono arrivato fin quaggiù, in questo borgo di poco più di 400 abitanti a pochi chilometri da Latina intitolato a un altopiano del Carso che fu teatro di una delle più sanguinose battaglie della Prima guerra mondiale, in seguito a una segnalazione preoccupata: nella notte della Liberazione è andata in scena una caccia al rom. Come spesso accade, migrando di bocca in bocca gli eventi si distorcono e ingigantiscono: c’è chi fa iniziare i pestaggi nel pomeriggio e li trascina fino a sera inoltrata, e chi invece parla di due, tre, addirittura quattro aggressioni in momenti diversi. Di certo qualcosa di brutto è avvenuto e, quel che è peggio, potrebbe ripetersi, vista la brutta aria che si respira tra i duemila abitanti circa di Borgo Bainsizza e delle vicine Borgo Montello e Santa Maria.
A portarmi nel campo è Paolo Bortoletto, un ex operaio della Goodyear mandato via dalla multinazionale americana nella prima ondata di licenziamenti, agli inizi degli anni ’80, «quando su 114 cassintegrati ne furono selezionati 94 con la tessera del Pci», ricorda. Bortoletto, che come la gran parte degli abitanti del luogo discende da una famiglia veneta deportata dal fascismo ai tempi delle bonifiche pontine, si è riconvertito all’agricoltura e all’ingresso della sua fattoria ha affisso una frase di Antonio Gramsci che sembra un avvertimento a rottamatori di ogni risma: «Una generazione che deprime la generazione precedente, che non riesce a vederne le grandezze e il significato, non può che essere meschina e senza fiducia in se stessa, anche se assume pose gladiatorie e smania per la grandezza». Da quando sui resti di una struttura costruita negli anni ’90 per accogliere i rifugiati somali ed eritrei e in seguito abbandonata a causa della mancanza di finanziamenti è nato il campo rom che prende il nome di quest’ultima, Al-Karama, che in arabo vuol dire «dignità», lui è impegnato perché ai suoi abitanti la dignità sia appunto restituita. Non sono in molti, da queste parti, a pensarla allo stesso modo. Per farmi rendere conto di quanto l’atmosfera in questi giorni sia pesante mi mostra alcune pagine facebook di persone del luogo. Vengono candidamente espressi, spesso in maniera sgrammaticata, giudizi razzisti e persino minacce di morte: «Prima tocca andà a acchiappà Bortoletto e farlo fuori»; «Prenderli ammazzarli e sotterrarli. L’unica soluzione!!! Tanto sono inutili e non servono a un cazzo!!! Come ‘sti quattro comunisti che girano per di qua», «Se la mattina troverete la vostra casa o la vostra attività svaligiata e saranno spariti i vostri beni più cari, credo che di comprensione per questa razza di pseudoumani, sarà scesa di molto. Ma nessuno si domanda come fanno a vivere questa gente, rubano e spacciano, perché sanno benissimo che le nostre leggi li tutelano. Svegliatevi gente«.
È stato Bortoletto a portare il ragazzo al pronto soccorso, tre giorni dopo l’accaduto, vedendolo livido e ancora tremante. Gli altri tre non si sono fatti neppure visitare da un medico. Non è facile da comprendere, ma ad Al-Karama ci si ammala senza neppure pensare di poter curarsi. Nel campo si vive in condizioni igienico-sanitarie disastrose: le baracche, vecchi container riciclati dai cantieri dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria, sono foderate di eternit, e all’esterno c’è immondizia dappertutto. Il campo confina con la megadiscarica di Borgo Montello, dove c’è il sospetto forte – corroborato dalle parole del pentito Carmine Schiavone – che i Casalesi abbiano sotterrato per anni fusti tossici, forse anche quelli provenienti dalla “nave dei veleni” Zenobia. Appena entriamo nel campo, veniamo accolti da un marito spaventato perché sua moglie ha appena abortito. È distesa su un letto, bianca come un cencio, ma a nessuno è venuto in mente di chiamare un’ambulanza o di trasportarla in ospedale.
Ionuz è l’unico dei pestati che riesco a incontrare. La madre non ne vuol sapere di denunciare: «Come facciamo ad accusare anche i poliziotti? Qui tutti dicono che ci vogliono ammazzare e bruciare il campo». Il ragazzo appare spaventato ma alla fine abbassa gli occhi e fornisce la sua versione dei fatti: la ronda di cittadini che ferma i quattro ragazzi, l’arrivo degli agenti, le botte. Una “lezione” che si conclude con il rogo dell’auto.

All’indomani del linciaggio di Tallulah, un villaggio della Louisiana, la notte del 21 luglio 1899, ci fu chi non mancò di ritenere gli italiani «una colonia di viziosi, omicidi e assassini», per i quali «omicidio e sangue sono quello che rose, luna piena e musica sono per poeti e amanti». Eppure, era appena accaduto che trecento persone inferocite avevano assaltato il comando di polizia per tirar fuori tre siciliani arrestati dopo il diverbio con una persona del luogo e impiccarli in piazza insieme ad altri due loro compaesani. A vincere fu il pregiudizio anti-italiano, aizzato da interessi economici: secondo diverse testimonianze, a orchestrare la campagna furono i commercianti locali, per banali motivi di concorrenza.
Borgo Bainsizza per fortuna non è Tallulah, il sud Italia non è il vecchio West e le due vicende distano più di un secolo e diverse migliaia di chilometri, però entrambe appaiono mosse da un’analoga molla: il pregiudizio che può spingere pacifici e civili cittadini di un paesino di provincia alla banalità del male. Ma l’humus che alimenta la campagna anti-rom da queste parti è particolarmente composito e non è sostenuto da soli pregiudizi. Anche in questo pezzo di nord-est meridionale qualcuno paventa che dietro la caccia allo zingaro possa nascondersi dell’altro: i terreni su cui è costruito il campo sarebbero ambiti per speculazioni di vario genere, ma per impossessarsene è necessario fare terra bruciata attorno ai rom e costringerli ad andarsene. «Conosciamo i forti interessi che sono legati all’allargamento della discarica, alla decisione di fare installare un termoinceneritore e alla convenienza dei gestori dell’impianto di acquistare quell’area per avere il controllo totale del territorio», accusa Giancarlo Marchiella, che è uno dei fondatori del comitato Dignità per Latina, nato proprio per difendere i rom di Al Karama. «Sappiamo anche benissimo quanto è alto il potere di persuasione e di manipolazione, da parte di determinati ambienti, sulle persone, per creare convinzioni devianti, basate su pregiudizi razziali e non solo. E sappiamo benissimo che c’è una volontà politica e istituzionale di non voler scoprire la verità sui fusti tossico-nocivi e di insabbiare il tutto per evitare altre pericolose situazioni, che potrebbero aggravare la posizione dei gestori del sito», aggiunge.
Proprio al lato di Al Karama, inoltre, il Comune – guidato da un’amministrazione di centrodestra, il sindaco Giovanni de Giorgi è stato eletto con il Pdl e ora è passato con Fratelli d’Italia – sta costruendo un campo attrezzato, sul modello di quelli voluti dall’ex sindaco Gianni Alemanno a Roma. Il governo ha stanziato un milione e 280 mila euro per sistemare un centinaio di persone, ma i lavori procedono a rilento. Vado a vederlo: hanno spianato il terreno, gettato una colata di cemento e recintato il tutto. «Non lo finiranno mai perché il prezzo sociale da pagare sarebbe troppo alto, il Comune perderebbe consensi e allo stesso tempo dovrebbe affrontare dei costi di gestione troppo alti», sostiene Bortoletto. Ma in paese si teme che la nuova struttura venga ultimata eccome e che questo potrebbe far raddoppiare la popolazione gitana. «Finirà che i due campi si sommeranno. Come può un paese così piccolo sopportare centinaia di stranieri?» dice qualcuno, palesando un timore inespresso: quello di poter diventare un giorno minoranza etnica. Secondo altri sarebbe in corso un tentativo di «spostare l’attenzione dai fusti tossici ai morti di fame». Insomma, si sarebbe deviata l’attenzione sull’emergenza rom per occultare le trame e i veleni che starebbero emergendo tra le pieghe della gestione della discarica.
A uno dei due bar di Borgo Bainsizza, quello di fronte al benzinaio dove si è fermata l’auto dei quattro giovani rom la notte tra il 24 e il 25 aprile, la pensano all’opposto. «Si mette in discussione solo la discarica, al comitato Amici del Borgo, del quale faccio parte, dicono che dei rom non si può parlare male perché altrimenti siamo razzisti. Però qui hanno provato a entrare due volte in dieci giorni, un altro bar è stato svaligiato, a qualcuno hanno rubato persino i panni dallo stendino. Il comune, invece di proteggerci, manda il bus a prendere i bambini per portarli a scuola. Per i nostri invece non c’è nulla», dice la titolare. Poi conclude, forse alludendo a quello che è accaduto proprio lì davanti la notte della Liberazione: «Il rischio è che prima o poi accada qualcosa di brutto». Ecco entrare in scena un altro elemento: l’insicurezza percepita. In parte alimentata ancora una volta dal pregiudizio, in parte da una microcriminalità effettivamente diffusa e ingigantita dal degrado sociale in cui vivono gli abitanti del campo. Ciò è talmente vero che trentacinque abitanti di Al Karama la scorsa settimana hanno scritto una lettera a Cgil, Libera, Legambiente, associazione 21 luglio e Comitato Dignità per Latina in cui prendono le distanze dagli abitanti del campo che «stanno perpetrando furti e atti di microcriminalità».
«Nei giorni successivi sono circolate due versioni su quanto accaduto. La prima era che si fosse trattato di un intervento per sventare un furto. L’altra invece che sia stata una vera e propria aggressione», racconta Fabrizio Marras. L’associazione di cui è il coordinatore provinciale, Libera, si è vista devastare tre anni fa il Villaggio della legalità, costruito su un camping abusivo confiscato a Borgo Sabotino, e ha subito diverse intimidazioni, ma lui, in base alla sua esperienza e conoscenza del territorio, non crede che dietro a tutto questo ci sia la malavita organizzata. La sua opinione è che la camorra pensi ad altro, in questo momento: si sta riconvertendo alla green economy, cercando di inserirsi nei business delle energie alternative, delle bonifiche e della raccolta differenziata. I rifiuti di Borgo Montello e i terreni occupati dai rom appartengono a un’altra epoca. Piuttosto, Marras crede che tutta questa storia abbia a che vedere con il razzismo diffuso e la guerra tra poveri scatenata dalla crisi economica, che pure qui ha picchiato duro. Per Marchiella la situazione è paradossale: Latina, città costretta a integrare popolazioni provenienti da aree diverse d’Italia, i cui abitanti sono stati sfollati nei campi profughi in Calabria durante la Seconda guerra mondiale, oggi non riesce a integrare i nuovi arrivati. Anche se il sentimento predominante, suggerisce, potrebbe essere non tanto il razzismo quanto quella che gli anglosassoni definiscono sindrome Nymby, un acronimo che sta per «not in my backyard», «non nel mio giardino». Si potrebbe riassumere in questo modo: non abbiamo niente contro i rom, basta che non stiano vicino a casa mia.

«Comunque la si affronti, questa vicenda porta consensi alla destra, perché la gente pensa che i rom li abbia fatti arrivare qui la sinistra», è l’opinione di Claudio Gatto, che incontro nella sua abitazione. Gatto è un allevatore di conigli, che in passato forniva alle case farmaceutiche per la sperimentazione animale, ma soprattutto è stato uno stretto collaboratore di don Cesare Boschin, un prete anch’esso di origini venete che fu trovato legato al letto e incaprettato il 30 marzo del 1985 all’interno della sua canonica a Borgo Montello. Ucciso dalla camorra, con ogni probabilità, a causa delle sue denunce contro la discarica. Nessuno gli ha mai restituito giustizia, a cominciare dalla Curia di cui faceva parte. Il mio interlocutore attribuisce una responsabilità su quanto sta accadendo pure alla Chiesa locale: «C’era un prete polacco che difendeva i rom, ma l’hanno sostituito e ora sono schierati contro il campo».
Parafrasando il buon Gabriel Garcia Marquez, si può forse affermare che stiamo raccontando la cronaca di un linciaggio annunciato. Una settimana prima, infatti, il 16 aprile, alcuni cittadini avevano organizzato un’assemblea pubblica nella piazza di Borgo Montello per prendere provvedimenti contro la «schiumaggine», vale a dire i rom, e contro chi li sostiene. Bortoletto si è presentato per discutere e difendersi. A giudicare dalle sue parole, non gli è andata particolarmente bene: «Sono volati insulti e minacce, nei confronti miei e di mia figlia, a cui qualcuno ha persino augurato di essere stuprata da un rom». Nonostante gli improperi proseguiti, a suo dire, anche nei giorni seguenti, Bortoletto mantiene la calma e prova a interpretare gli eventi: «Al borgo pensano che non possa ricadere tutto su di loro, la discarica di rifiuti e quella umana. Non sono razzisti ma sottoacculturati e ignoranti. È gente che ha votato in massa a destra e ora è delusa perché non ha risposto alle loro aspettative». L’ipotesi è suggestiva: si tratterebbe di schegge della deflagrazione del blocco sociale berlusconiano. Che possono essere pericolose e far male.