Chi gioca in borsa e lo fa con un particolare azzardo, ben presto decide di investire più di quello che possiede, facendo ricorso a prestiti. Quando un’autorità decide di bloccare questi prestiti, perché c’è il rischio di una bolla speculativa, il giocatore d’azzardo è probabile vada fuori di testa. E in Cina questi «giocatori d’azzardo» sono almeno 90 milioni.

I tecnici chiamano la sensazione che deve averli catturati panic sentiment. Un termine che la dice lunga su tutte le speculazioni tecniche che possono farsi per spiegare un tonfo clamoroso. Paura, sfiducia, corse rapide, gambe all’aria, fuga; terminologia che nasconde quanto realmente accaduto, meccanismi che si perdono in sofismi finanziari, prestiti, «marginalità» che alla fine determinano il crollo.

I quotidiani economici e finanziari già avvertono che questo tonfo potrebbe essere più grave del rischio di un’uscita della Grecia dall’euro.

E per ora il governo cinese ha imposto la chiusura: nessuna azione in borsa per i prossimi sei mesi, per molte delle aziende quotate in borsa; stop alla vendita di azioni di chi possiede più del 5 per cento di un titolo. Un gesto tutto da verificare nella sua reale utilità.

Nessuno dimentica che cosa potrebbe significare una Cina in ginocchio finanziariamente, e del resto questo crollo è una lenta e inesorabile azione in corso da giorni, da settimane e forse era perfino prevedibile se da anni in Cina un rischio bolla ne sostituisce un altro. L’alchimia di un mercato controllato, secondo alcuni falchi in Cina, comincia a dare i propri segnali negativi.

Secondo Bloomberg ieri il disastro ha provocato la sospensione delle contrattazioni di almeno 1.323 società, «nel tentativo di arrestare una caduta che ha portato i listini a bruciare oltre 3.500 miliardi di dollari». Su altri 710 titoli l’impossibilità ad operare è derivata dal congelamento seguito a crolli nelle borse di Shanghai e Shenzhen superiori al 10%.

Gli operatori finanziari, però, hanno ben presente il rischio del crollo, ma rimangono ad ora piuttosto nebulose le cause e soprattutto le conseguenze (si parla di un «1929 cinese»), specie alla luce dei primi provvedimenti del governo cinese che non hanno sortito l’effetto voluto. Ieri, poi, Pechino ha ordinato alle aziende di stato di comprare e non vendere nel tentativo di fare rientrare almeno il panic sentiment.

Ma perché è avvenuto questo apparente disastro? Innanzitutto è bene precisare che la composizione degli azionisti cinesi è particolare. In questi giorni molti media hanno sottolineato la rilevanza dei piccoli azionisti. Persone appartenenti alla middle class, spinti a operare in borsa.

Questo fenomeno era già accaduto a inizio del 2008, quando gli uffici nel retro delle banche venivano presi d’assalto da tanti negozianti, lavoratori, piccoli imprenditori, casalinghe, anziani, desiderosi di comprare azioni.

Questa traiettoria si modificò ben presto: l’economia reale cinese andava a gonfie vele – crescita a doppia cifra – e i risparmiatori nazionali videro bene di prelevare il contante da sotto il materasso per investirlo nel mattone, aspettando tempi migliori per la Borsa. Grazie all’opera ingente di urbanizzazione – dal 2011 la Cina ha una popolazione più urbana che rurale – il settore immobiliare era diventato ormai una sorta di cassa di sicurezza nazionale.

Anche in quel caso ci furono speculazioni, si attivò ben presto un meccanismo di banche ombra, perché lo Stato fu costretto a chiudere i rubinetti del credito, a causa del rischio bolla immobiliare.

A quel punto si è tornati sul mercato azionario, dove agiscono 90 milioni di piccoli azionisti (gli iscritto al partito sono 88 milioni, per fare un paragone), piuttosto volatili e talvolta incomprensibili nelle loro azioni.

Propensi per altro a giocare d’azzardo, causando così quel sommovimento che ha finito per creare il rischio di un salto nel vuoto, quando – in soldoni – il governo ha stretto le maglie dei «prestiti per investire» cui gli azionisti erano ricorsi. Fino al 12 giugno la Cina ha permesso la realizzazione di tanti soldi ai suoi azionisti (una crescita di oltre il 150% che consente un bilancio rispetto all’anno scorso, nonostante il tonfo di oltre +80%) poi è cominciata la china discendente, che si è concretizzata nella settimana dell’annuncio del referendum della Grecia.

Si tratta di una connessione che però – a parte nei primi istanti- è finita nelle retrovie delle giustificazioni. Secondo gli analisti di Schroders infatti, la storia sarebbe andata in altro modo: quando il regolatore agisce per ridurre la volatilità, «si assiste a forti crolli giornalieri». Sarebbe dunque l’azione del governo, attraverso la restrizione ai finanziamenti sul margine, ovvero una sorta di prestito che viene chiesto per investire, ad aver prodotto l’attuale «sell-off».

Non mancano i segnali che a Pechino vengono letti come incoraggianti: il presidente Xi Jinping, nonostante la situazione di grande incertezza, si è recato in Russia al vertice Brics, facendo capire che tutto è abbastanza sotto controllo da non richiedere la sua presenza in patria. Naturalmente in Cina questo genere di «gesti» ha sempre una doppia lettura e nella giornata che ha visto ogni tipo di speculazione, non è mancata anche quella che vuole Xi Jinping lasciare al proprio destino il premier Li Keqiang, responsabile delle politiche economiche del paese.

Tanto che qualche fonte vicina al premier avrebbe raccontato al Financial Times l’ira di Li, una volta tornato in Cina dal viaggio in Europa, per «dover fare fronte da solo alle difficoltà finanziarie». Non sono segnali positivi, neanche questi.