«Non c’è nessuno nella storia che sia responsabile di così tante gravidanze quanto me. E tu sai il motivo…» Lo sceneggiatore Robert Towne ride in anticipo, aspettandosi l’ovvia chiusura della battuta del suo interlocutore. «Love Story!». La persona che Towne ha di fronte, al tavolo del ristorante Dominick’s di West Hollywood, è Robert Evans, capo produzione della rinata Paramount, relativamente giovane per quel ruolo (ha quarantadue anni), ma con già alle spalle successi folgoranti come Il padrino, Rosemary’s Baby e, appunto, Love Story. Siamo nella prima metà del 1972, e quell’incontro è già un punto cruciale delle rispettive carriere. Da resuscitatore della Montagna (così veniva chiamata colloquialmente la Paramount), Evans è riuscito a ritagliarsi un accordo unico nel suo genere, che gli permette di conservare il ruolo dirigenziale e di agire allo stesso tempo come produttore indipendente. È sulla cresta di un successo da favola, ma per i detrattori è senza dubbio più fortunato che talentuoso. Towne invece si è guadagnato la stima degli addetti ai lavori di Hollywood come ghost writer (ha riscritto scene di Gangster Story e Il padrino), ma non ha ancora messo la firma su nessun film importante.
L’incontro tra i due si deve all’intenzione di Evans di offrire a Towne l’adattamento del Grande Gatsby, un suo vecchio pallino. Un tentativo Evans l’ha già fatto nientemeno che con Truman Capote, ma a suo dire il copione ricevuto dallo scrittore si è rivelato inservibile. Scettico sulla possibilità di tradurre la prosa di Fitzgerald in linguaggio filmico, Towne con coraggio rifiuta l’offerta (in quel momento è alla disperata ricerca di denaro). Ma rilancia. Rivela a Evans di aver scritto una storia d’amore, si chiama Chinatown. «È ambientata a Chinatown?». Towne scuote la testa: «No, Chinatown è una sensazione. Uno stato mentale». Poco importa se, allora, a Robert Evans quelle parole dovettero risultare sibilline. E se il film che Towne aveva in mente non era, almeno principalmente, una storia d’amore. Oggi, i molti fan che hanno visto e continuano a rivedere Chinatown – capolavoro del cinema americano degli anni settanta (e non solo) –, e che ne ricordano a memoria l’ultima battuta («Lascia stare, Jake. È Chinatown») sanno perfettamente a cosa si riferisse Robert Towne evocando quella sensazione. Ma per raggiungere la completa corrispondenza tra l’idea iniziale e l’opera finita ci volle un lungo, sofferto tragitto.
Questo tragitto è narrato – magistralmente – in The Big Goodbye Chinatown and the Last Years of Hollywood (Flatiron Books, pp. 416, $ 28.99, € 34,99) da Sam Wasson, critico cinematografico americano già noto in Italia per Colazione con Audrey (Rizzoli 2011) – storia del making of di Colazione da Tiffany. Dopo aver raccontato in altri libri (purtroppo) non tradotti in Italia la vita e l’arte di Bob Fosse e di Blake Edwards, Wasson si è dedicato a Chinatown eleggendolo a simbolo di un’epoca, quella della New Hollywood anni settanta, e a crocevia dei destini eccezionali delle quattro persone che ne hanno condiviso la paternità: oltre a Evans (il produttore) e a Towne (lo sceneggiatore), Roman Polanski (il regista) e Jack Nicholson (l’attore protagonista). Al lavoro di Wasson si può applicare, per una volta niente affatto genericamente, il termine di «racconto», perché il talento del critico losangelino è proprio quello di filtrare una grande massa di documenti, interviste e aneddoti in una forma ai confini col romanzo, capace per di più di catturare e restituire gli umori dell’oggetto della sua narrazione. I lettori di The Big Goodbye possono così apprezzare, tanto nella prosa di Wasson quanto nell’emplotment dei fatti raccontati, quella nuance amara che rende così unico il film di Polanski, arricchendola anzi con una nuova profondità di significati.
Già la scelta del titolo del volume delimita un territorio molto preciso, che dal cinema si protende verso la letteratura: la fusione di The Big Sleep (Il grande sonno) e The Long Goodbye (Il lungo addio), primo e penultimo romanzo della saga chandleriana con protagonista il detective privato Philip Marlowe, rimanda al territorio nativo dell’ispirazione del film, appunto la letteratura hard-boiled di Raymond Chandler. Da quelle pagine, il film eredita la tonalità allo stesso tempo oscura e cocente e il senso di un’innocenza troppo presto compromessa, che finiscono per stingere sui destini dei suoi quattro demiurghi. È particolarmente felice la scelta di Wasson di seguire le traiettorie di questi personaggi, che da amare in alcuni casi si fanno tragiche. Ciò è vero anzitutto per Polanski, deus ex machina che ha saputo traghettare l’entusiasmo iniziale di Evans e una prima stesura prolissa del copione di Towne alla perfezione geometrica, da meccanismo a orologeria, del film finito, oltre che al suo splendore visivo.
La parabola del regista polacco, nel racconto di Wasson, si muove dall’oscurità della Shoah, nella quale Polanski perse la madre, e prosegue in una nuova tenebra, l’omicidio della moglie Sharon Tate per mano della Famiglia Manson; le ombre lambiscono il ritorno di Polanski a Los Angeles, dopo essersene allontanato in seguito al massacro di Cielo Drive, appunto per la lavorazione di Chinatown, e si insinuano nel tono elegiaco e perturbante del film. E infine risucchiano ancora una volta il regista, sopraffatto e sopraffattore, incapace di arginare le sue pulsioni sessuali e costretto ad abbandonare per sempre, da fuggiasco, gli Stati Uniti.
Per Towne, il destino va dal tentativo di emanciparsi da un padre istrionico e alcolizzato, all’Oscar ottenuto nel 1975 proprio con Chinatown, a una separazione crudele dalla moglie Julie Payne (figliastra dello sceneggiatore di Gli uomini preferiscono le bionde Charles Lederer), e infine a una dipendenza dalla droga che lo porta ad assomigliare sempre di più all’amato/odiato padre. Anche per Robert Evans è decisivo il confronto con una figura paterna ingombrante, questa volta in senso positivo. Lo anima, fin dagli esordi come attore, il desiderio di riscattare il destino del padre, dentista newyorchese costretto ad accantonare il talento musicale per sostenere con il lavoro la numerosa famiglia. Ma dopo aver firmato come produttore, oltre a Chinatown, almeno altri due capolavori degli anni settanta come Il maratoneta e La conversazione, Evans dovette fare i conti con una lunga battuta d’arresto della sua fortuna e, anche lui, con una severa dipendenza dalla cocaina.
A Jack Nicholson toccò forse l’arco drammatico dalla curva più morbida: la scoperta a mezzo stampa del segreto inconfessato della sua famiglia (quella che aveva sempre ritenuto la sorella maggiore era in realtà sua madre) lo rese tuttavia più cinico e disilluso nelle relazioni affettive, e quel cinismo, al volgere del decennio, divenne anche la difesa di una carriera ormai da divo milionario, più che da maverick del cinema qual era stato in origine. Egli non sembrò però abbandonare i vecchi amici e l’idea di far rivivere il miracolo che aveva visto nascere l’opera a cui i loro destini sarebbero rimasti legati per sempre. Sul finire degli anni ottanta, si imbarcò nell’impresa di dare un seguito a Chinatown, forse mosso soprattutto dal desiderio di aiutare Evans, che in quel momento attraversava uno dei momenti più bui della carriera. Il produttore avrebbe dovuto far parte del progetto questa volta come attore, interpretando il secondo dei Two Jakes a cui era intitolata la nuova sceneggiatura di Towne – il primo essendo il detective Gittes già protagonista di Chinatown. Nell’impossibilità di avere di nuovo Polanski nella partita, Nicholson si accollò il doppio ruolo di attore e regista, ma dovette anche tristemente realizzare che Evans non sarebbe stato in grado di tornare al suo iniziale mestiere di attore e che Towne non si sarebbe mai deciso a revisionare la prima stesura del copione, anche questa volta confusa e prolissa. Il ruolo di Evans passò a Harvey Keitel, e a rimettere mano alla sceneggiatura pensò lo stesso Nicholson. Il film uscì nel 1990 (il titolo italiano è Il grande inganno), Nicholson ricevette da Polanski i sinceri complimenti per l’impresa, ma il pubblico e la critica non ne furono conquistati.
L’epoca d’oro di Chinatown non aveva ripreso vita, e si spegneva definitivamente la possibilità di un terzo capitolo per l’epopea del detective Gittes. Anche questo secondo atto si tingeva così, pur se in altro modo, della nuance amara di cui era pervaso il prototipo. Una nuance non priva tuttavia di eroismo cavalleresco, come ha voluto suggerire Wasson siglando in esergo il libro con una perfetta citazione da Chandler: «Abbiamo ancora sogni, anche se ora sappiamo che la maggior parte di essi non porteranno a nulla. E sappiamo anche, fortunatamente, che questo in fondo non conta».