Non si schiera con i mostri sacri. Non si considera un virtuoso alla De Niro, alla Depp o DiCaprio, con cui ha condiviso il grande schermo. Ma Christopher Walken rivendica una qualità : «Quando entro da qualche parte, non potete far a meno di notarlo». La magia si è ripetuta al suo ingresso sulla terrazza dell’8° Champs-Élysées Film Festival, che gli ha reso omaggio. Da 71 anni alla ribalta («ho cominciato a 5 anni nel music-hall, tanti lasciano lo show-buseness quando crescono, diventando medici o avvocati, io continuo da allora, anche perché un giorno il cinema è venuto a pescarmi»), silhouette d’antico danzatore, l’inconfondibile voce appannata, sonnambolico con guizzi d’istrionismo, l’attore di Michael Cimino (Il cacciatore, I cancelli del cielo), David Cronenberg (Dead Zone), Tim Burton (Batman, Sleepy Hollow), Quentin Tarantino (Pulp Fiction), Tony Scott (Man on Fire, Domino), Abel Ferrara (The King of New York, The Addiction), sguardo sottomarino e pelle di pergamena, definito ‘un extraterrestre’ dall’amico Mickey Rourke per la sua camminata singolare e il taglio alieno dei capelli, è ben conscio del suo potere magnetico.

I suoi personaggi, specie agli inizi, han tutti lo stampo-Walken: volontà sua o dei registi?
Storia lunga, ho protestato mille volte. Tanti cineasti, dopo avermi preso, han riscritto la mia parte infarcendola d’eccessi e stranezze: letto il copione, ingaggiato e poi ‘walkenizzato’! Agghiacciante. Un modo di farmi interpretare la caricatura di me stesso.

Scappatoie?
Ho finito per escogitare una clausola da aggiungere nel contratto: deve essere approvata da me qualsiasi riscrittura successiva al mio ingaggio.
‘Walkenizzato’ o no, non ha mai smesso di recitare. Non sapendo giocare a golf, non avendo figli e non avendoci fatto il callo con internet, non saprei in che altro modo impiegare il mio tempo: in questo mestiere, mia madre, fiammeggiante panettiera, mi ha gettato, insieme ai miei fratelli, da bambino, trasmettendomi tutta la sua ambizione.

Diventato attore per costrizione domestica?
Sono nato in una famiglia d’immigrati, nel Queens, sobborgo di New York, dove l’inglese era una seconda lingua. Son passato per la danza, il teatro, il music-hall e, anche, una breve esperienza di domatore di leoni : di qui, la mia passione per i felini…

La sua fedeltà al cinema nasce già da spettatore?
Una volta a New York c’erano sale dove si poteva stare tutta la giornata: sei film, dalle 10 del mattino, per meno d’un dollaro. Quanti ne ho visti, da ragazzo. Il cinema europeo era molto più diffuso e apprezzato in Usa. Tutti conoscevano i film italiani, francesi, svedesi, inglesi, russi. Non esistevano successi al botteghino da 100 milioni di dollari: un incasso di 5 milioni era già fantascienza.

Ha vissuto da vicino il disastro di cassetta di Michael Cimino.
Già era stato un grande scandalo il budget di I cancelli del cielo: 38 milioni di dollari. Era il 1980. Oggi, con quel budget, non si potrebbe nemmeno parlare di un ‘grosso’ film.

Nel suo cine-percorso di 50 anni, alla vigilia dell’uscita di «Percy» con Christina Ricci, qualche rimpianto?
Sì, come tutti. Ci son tanti film non girati, tanti ruoli non interpretati, magari in film poi alle stelle: con altri 500 attori m’ero presentato al casting di Love Story o per il ruolo di Han Solo in Star Wars… Come si dice nell’ambiente, tutti sono amabili e ben educati, perché tutti, registi, attori, truccatori, sanno bene che dietro di te ci son sempre 500 persone brave come te che vogliono il tuo posto.
Secondo il principale sindacato in Usa il 97 % di attori di cinema è disoccupato… Tutti ‘waiters’: a fare i camerieri o a aspettare la chiamata.

Che ne è del suo progetto sulla pornostar John Holmes, che avrebbe dovuto dirigere Abel Ferrara?
Mai realizzato. Durante le riprese di The King of New York, lavoravamo molto di notte e ci parlavamo molto, aspettando che la cinepresa fosse a posto. Ma, parla parla, niente film. È poi uscito l’eccellente Boogie Nights di Paul Thomas Anderson. La maggior parte dei film che sogniamo non esisteranno mai. O magari, una volta usciti, nessuno va a vederli. Io stesso, molti dei miei film, non li ho mai visti.

New York è la sua culla, la sua casa, il suo set. Abel Ferrara ha fatto di lei il ‘King’, e lei l’ha lasciata.
Sì e no. New York è una città formidabile, vi ho trascorso quasi ogni giorno della mia vita : ma quando ho sentito il bisogno di un po’ più di calma, mi sono spostato all’aria pura degli alberi del Connecticut, a un’ora dalla città. Non faccio parte di quei newyorchesi che se ne stanno a rimpiangere tempi più densi e eccitanti. Il melting pot s’è spostato, non è sparito. Times Square oggi è diversa: una volta era piena di strip club, di ragazze nude, ora un po’ eclissate. Non era d’una pulizia esemplare, c’erano i topi. Luoghi e abitudini sono oggi semplicemente traslocati.

I suoi ruoli a venire, li ha sempre descritti in modo irriconoscibile rispetto alla sceneggiatura: come se si fosse preparato a affrontare strati segreti, sepolti, del personaggio.
Con il tempo, ho notato questo fenomeno, e ci penso spesso: nella vita s’incontrano persone di cui non sai nulla e che sul momento possono sembrare interessanti, persino affascinanti, prima di scoprire sul loro conto qualcosa che indica tutto il contrario. Non credo che la gente sappia necessariamente chi è. La gente si sogna. Abita il proprio sogno, che non si confonde con le sue azioni. In altre parole, non credo si possa essere un ‘cattivo’ solo per il fatto che si pensa di esserlo. Almeno, non al cinema.

Trova elementi comuni nella gamma di ruoli da lei interpretati?
Non mi è mai sembrato di poter scegliere. È capitato, tutto qua: penso che abbia a che vedere con il modo in cui son partito nel cinema. I primi film in cui ho interpretato un vero personaggio hanno avuto una risonanza enorme: Annie Hall, Il cacciatore, poi I cancelli del cielo. In Annie Hall, ero un tipo divorato da un desiderio di sbandamento suicida in macchina sull’autostrada. In Il cacciatore, mi sparo una pallottola in testa. E I cancelli del cielo, dove sono Natan D. Champion, è stato lo scandalo che sappiamo. Ho iniziato così. Da quel momento, mi han proposto personaggi con un certo numero di problemi.

Tutti con quella sua andatura caratteristica…
Fatta apposta. Anche un certo modo di stare, di pettinarmi … Mi sono esercitato in una moltitudine di tratti singolari: lo sguardo, il sorriso deciso, una voce e una dizione particolari … Credo che non potrei essere attore se non fossi un po’ esibizionista, abbastanza eccentrico. Non dimentichiamo che vengo dal music-hall ! Quando Mickey Rourke dice che provengo da un altro pianeta, intende lo show-business anni ’50. Alla ribalta, con la musica, devi divertirti un mondo, e mostrarlo: altrimenti, il pubblico sentirà che hai paura, che aspetti solo di svignartela. Ma se sente che ti diverti, che sei al posto giusto, nel tuo habitat naturale, come un animale nella foresta, questo comfort diventa comunicativo, produrrà un certo effetto.

Un sovraccarico di sé per farsi accettare come si è?
Ci sono attori, attrici, riassumibili nella loro dote più vistosa: ‘The Look’, ‘The Voice’… I grandi attori possono rendersi invisibili. Ho per amici grandi attori e attrici, che frequento e ammiro – tutti li conoscono –, che possono essermi accanto mentre si aspetta l’ascensore, per esempio, e io magari non me ne accorgo. Possono sparire, fondersi completamente nella folla. Questo, io non posso farlo.