«“Come farai – mandavi una volta – / a scrivere ancora / dopo l’ultimo tuo libro di versi / come farai adesso?”. Infatti non scrivo. / Ripeto soltanto che il dolore / è reale e passato». Rotto il silenzio della scrittura, è finalmente una bella notizia il ritorno di Cristina Alziati, con il suo Quarantanove poesie e altri disturbi (Marcos y Marcos, pp. 95, € 18,00).

Undici anni dopo Come non piangenti – la sua ultima raccolta – Alziati è, di nuovo, in stato di allerta: anche questi versi sembrano abitati da un’urgenza, una concitazione, da un impulso alla custodia di ciò che rischia di andare perduto («Fate presto, nulla sarà risparmiato / dicevi alle ombre, al fogliame / ai resti nella macchia»). Sembra che questa voce, per tornare a farsi sentire, abbia dovuto in qualche modo ripartire dalle proprie origini: due poesie trasmigrano qui dalla prima raccolta,

A compimento; restano stabili almeno alcuni dei referenti o interlocutori che conoscevamo (da Franco Fortini a Bertolt Brecht a Jean Charles Vegliante); e di un altro faro come Hölderlin si traduce – di nuovo, e diversamente – una gemma come Hälfte des lebens (Nel mezzo della vita, nella versione presentata qui; e un altro testo si intitola, molto esplicitamente, Traducendo, ritraducendo Hölderlin, come a dire la durata di una fedeltà). Intorno, c’è un mondo che «ha odore (…) di perdita», in cui continuano ad aprirsi le tremende ferite della Storia (questa poesia, in effetti, è anche una sorta di discontinua mappa degli sconfitti, da Rosa Luxemburg a Lenin, dall’Iraq a Kabul alla Bosnia).

Mentre osserva con disincanto il suo presente Alziati considera le sorti di «una stirpe / fecondamente intenta / a sterminarsi» (e stirpe è parola-chiave di questo libro, che in un modo o nell’altro guarda sempre ai ‘destini generali’): chi dice io in questi versi trattiene per sé una sola «certezza», la sua posizione di strenua inimicizia, di avversità al proprio secolo («posso dire soltanto / contro che cosa, a volte, ho scritto»).

Due sono i punti di riferimento, i fari che rimangono accesi anche mentre fuori si ascolta l’«annuncio di una guerra». Intanto, il dialogo con la figlia, che da sempre è parte di questa poesia, prima come dedicataria e poi come voce interna al testo (una voce che qui anima una delle sezioni più belle del libro, la compatta e intensa Exclave). D’altra parte, lo sguardo di Alziati accoglie continuamente l’elemento naturale, nel suo splendore oggettuale, nella sua intatta immanenza: un vero e proprio contraltare della transitorietà e della piccolezza (anche morale) dell’umana specie («I favolosi nuvoli e i germogli / e i rovi esistono, e l’insensata / chiarità dell’alba (…). / Alla mia porta invece / non ha mai bussato nessuno»). Davvero un folto, un «assedio» di presenze (le ghiandaie, la lucertola, l’acacia, i larici ecc.), racchiuse in una enigmatica, «ignara» sapienza: «Dentro il muro sonoro di cicale / di sghembo al mio passare / si alza in volo, dall’ombra, l’airone cinerino».