Studioso di storia del cristianesimo e specialista delle comunità gesuane dei primi secoli, Emiliano Rubens Urciuoli si è cimentato in un progetto ambizioso e affascinante: ricostruire la genealogia del «politico cristiano» nell’impero «pagano», cioè prima che avvenisse la cristianizzazione della legislazione e delle istituzioni politiche. Come si legge nella quarta di copertina di Servire due padroni (Scholé, pp. 400, euro, 25,00), «dal rimosso culturale cristiano emerge una figura culturalmente “scomoda” e storiograficamente inedita» che l’autore utilizza come chiave per investigare i nessi tra teologia, storia del cristianesimo antico, e storia sociale. «Calcolando all’incirca all’1% il dato della classe dirigente sulla quota totale dei soggetti residenti all’interno del limes, ci ritroviamo evidentemente con un numero ridottissimo di uomini potenzialmente politici e cristiani».

EPPURE, LA QUESTIONE POSTA dal libro rimane affascinante e cruciale per i successivi sviluppi: come si comportavano i seguaci di Gesù coinvolti in un’attività pubblica che risultava ancora priva di una copertura teologica? Si possono intravedere traiettorie e attitudini, preoccupazioni e inquietudini? Come spiega fin dalle prime battute, la ricerca vuole uscire dunque dalla facile dicotomia del «martire» contro il «senatore», ossia del contestatore apocalittico contro l’interprete integrato nell’ordine dominante. Partendo dalla considerazione che l’ideale teologico della distanza dalle cose temporali non può essere stato realisticamente la regola del comportamento dell’epoca, il libro smonta la rappresentazione del cristiano «impolitico» e declina la teologia paolina sull’inoperosità nella vita pubblica come principio di difesa dell’amministrazione dei beni religiosi. Quindi, mobilitando Bourdieu, descrive il campo d’azione del politico cristiano sulla base dell’analisi delle fonti letterarie ed epigrafiche, e individua alcune tipologie di comportamento: il «politico di vocazione», cristiano ma non influenzato dalla religione; «l’uomo di mondo», politicamente attivo, ma che ancora milita nel campo religioso; il «lealista sub condicione», cioè il «lealista passivo» nei confronti del potere, ma che cessa la propria obbedienza in caso di conflitto il religioso; il «suddito inattendibile», che implicitamente delegittima le istituzioni, pur senza violarle; l’«oppositore apocalittico», e da ultimo il suo contrario, il «sostenitore ideologico dell’impero», cioè colui che, riconosce nel sistema un potere katechontico e quindi giustificabile teologicamente.

L’INTERESSE PRINCIPALE dell’autore è per la figura più difficile da definire, quell’uomo di mondo di cui indaga le strategie e i sotterfugi nel diritto romano attraverso lo studio dei passi di Tertulliano, Cipriano, Dionigi di Alessandria, e Origene. Particolarmente interessanti sono i passaggi dedicati al rinvio del battesimo, il boicottaggio delle misure anticristiane e la sottrazione dalle iniziative religiosamente contestabili (come, per esempio, con la partecipazione solo passiva a giochi e sacrifici). Alla luce di questo quadro mosso e denso di variabili, si comprende che lo sbocco più probabile per i «politici cristiani» sarebbe stato probabilmente nel settore fiscale, per esempio nella funzione di procuratore finanziario. Ne scaturisce una rappresentazione del tutto nuova del rapporto del cristiano con la politica che mette in secondo piano la figura dominante nella storiografia del martire inoperoso, figura peraltro funzionale all’autolegittimazione del cristianesimo, per fare posto alla vita concreta – e spesso «stigmatizzata come ignobile» – del cristiano del tempo, «al crocevia tra l’interesse al consumo religioso di beni e servizi cristiani e la complicità nel prelievo politico di proventi agricoli».