Ieri un terremoto politico ha investito la Svezia, creando una crisi di governo imprevista in una situazione di tensione che si prolungava da tempo. In mattinata, un voto parlamentare aveva dato il via libera alla premiership di Magdalena Andersson, già ministra delle finanze dal 2014: per la prima volta nella storia, il governo svedese sarebbe stato presieduto da una donna, che si riprometteva di guidare la coalizione di minoranza tra socialdemocratici e verdi fino alle prossime elezioni, previste per settembre 2022.

Il via libera del parlamento era stato preceduto da complesse negoziazioni, in particolare con i due partiti che, pur senza rientrare nella coalizione di governo, avrebbero dovuto garantire il loro sostegno esterno. In cambio della propria astensione, il Vänsterpartiet (partito di sinistra) aveva ottenuto un impegno scritto, reso pubblico poche ore prima del voto, ad alzare le pensioni minime, che in Svezia sono particolarmente basse e determinano il maggior tasso di povertà tra i pensionati di tutti i paesi nordici. Come aveva fatto qualche mese fa impedendo la liberalizzazione del mercato degli affitti, anche stavolta Nooshi Dadgostar, segretaria del partito di sinistra, aveva puntato i piedi e incassato un successo.

Non è tardata però la reazione del Centerpartiet (partito di centro), che, unico partito centrista e liberista rimasto nel campo governativo dopo l’abbandono dei liberali, ha invece sempre posto la questione di principio dell’esclusione della sinistra radicale da ogni negoziazione politica. Poche ore dopo la fiducia a Andersson, al voto per la legge finanziaria, i centristi hanno fatto mancare il sostegno alla proposta del governo e, astenendosi, hanno permesso l’approvazione della proposta dell’opposizione, elaborata dai moderati e dai cristiano-democratici con il coinvolgimento della destra radicale e xenofoba dei Democratici di Svezia.

Un tale voto costringe ora qualsiasi coalizione a governare, indipendentemente dal proprio orientamento politico, sulla base della finanziaria proposta dal centrodestra. Una situazione che ripropone quella affrontata dall’ex-premier Stefan Löfven nel 2015 (il primo anno del suo mandato), poi superata negli anni successivi da un patto che permise al centrosinistra di far approvare le proprie leggi finanziarie e a consolidare, fino a tempi recenti, la conventio ad excludendum nei confronti dell’estrema destra – pregiudiziale che ormai i partiti di centrodestra considerano superata.

Un quadro del genere è apparso inaccettabile per gli alleati del partito ecologista, che hanno dichiarato di voler uscire dalla squadra di governo per non dover sopportare l’abbassamento della tassazione sui combustibili fossili previsti dalla proposta approvata, e per prendere simbolicamente le distanze dall’estrema destra. Nonostante i verdi abbiano assicurato che non ostacoleranno i lavori di un futuro governo Andersson – promessa reiterata, paradossalmente, anche dai centristi – la neoeletta premier ha rassegnato in serata le proprie dimissioni («dopo sole sette ore dalla nomina», sottolineavano ieri sera i principali quotidiani) al presidente del parlamento, che dovrà ora ricominciare le consultazioni.

L’esito della crisi è difficile da prevedere. Teoricamente, Andersson potrebbe guidare un governo di minoranza monocolore fino alle elezioni, con una politica economica dettata dall’opposizione – magari occasionalmente emendata da maggioranze variabili. Una situazione rischiosa per i socialdemocratici, che contavano di presentarsi alle elezioni del prossimo anno con il volto “nuovo” di Magdalena Andersson.

A rimetterci potrebbe essere soprattutto la sinistra interna, che aveva usato il consenso crescente nelle sezioni delle grandi città per strappare, durante l’ultimo congresso del partito, alcune concessioni rispetto alla linea rigorista e “frugale” che ha caratterizzato la politica socialdemocratica degli ultimi anni – linea di cui peraltro Andersson è considerata un’esponente.