La grave crisi economico, sociale e politica del Venezuela provoca già i primi danni collaterali. A Cuba , dove il taglio delle forniture di greggio – del 40% secondo l’agenzia Reuters – deciso qualche mese fa da Caracas ha precipitato l’isola in una pericolosa crisi energetica. Tanto che il presidente Raúl Castro ha dovuto rivolgersi all’amico e collega russo Vladimir Putin per chiedergli di garantire in futuro una fornitura stabile di greggio e gas a Cuba.

Naturalmente a condizioni favorevoli, sia per i prezzi che per i finanziamenti. Dalle informazioni fornite da un’agenzia specializzata in questioni energetiche, nella sua missiva allo zar russo, il presidente non avrebbe precisato la quantità di petrolio richiesta, né il prezzo e le facilitazioni finanziarie, limitandosi a garantire che il governo cubano avrebbe fatto fronte ai propri impegni una volta sottoscritto il contratto.

Cuba produce 4 milioni di tonnellate all’anno di greggio e derivati: la metà del fabbisogno nazionale, quasi tutto impiegato nella produzione di energia elettrica. Dall’inizio del Duemila, grazie a un accordo concluso con l’allora presidente Hugo Chavez, l’Avana riceveva circa 90.000 barili di greggio al giorno a prezzi preferenziali e pagato con le prestazioni di migliaia di “collaboratori”, medici, paramedici, insegnanti, istruttori sportivi, inviati in missione in Venezuela. Oggi, con le casse semivuote di valuta estera, il governo cubano non può pensare di rivolgersi al mercato internazionale per acquistare il petrolio e il gas che mancano.

All’inizio di agosto, Raúl ha ammesso che il paese rischia una crisi energetica che si somma a una difficile congiuntura economica, in pratica una stagnazione visto che le previsioni di crescita sono state dimezzate, con un Pil che al massimo aumentarà dell’1%. Per affrontarla, il governo cubano ha deciso un taglio del 30% dei consumi energetici nel settore statale dell’economia per il secondo semestre dell’anno, con le relative conseguenze: il rischio di ridurre anche la fornitura di energia elettrica alla popolazione. Ma con una stagione estiva tra le più calde e con una popolazione che ha già ridotto al minimo i consumi – lo stipendio medio si aggira sui 25 euro al mese – non vi è da stupirsi che il cittadino comune abbia reagito esprimendo molte preoccupazioni per un futuro pieno di nuvole nere.

È in questo quadro che il presidente Raúl ha deciso di rivolgersi alla Russia, con una richiesta che di fatto fa riferimento a interessi geopolitici del Cremlino, ben lontano ancora da un accordo con Washington su questioni strategiche, dalla guerra in Siria all’Ucraina. Una situazione questa che induce alcuni analisti a ipotizzare un ritorno al passato, quando Cuba dipendeva dai (consistenti ma non disinteressati) aiuti dell’Unione sovietica. Ma oggi la situazione è ben diversa.

Tanto che, a Mosca, il Ministero dell’Economia ha inviato una lettera al responsabile del Settore energetico avvertendolo che «la capacità di pagare del governo cubano costituisce un rischio importante» e proponendo di implicare nell’organizzazione delle forniture «le compagnie petrolifere che hanno progetti di investimenti» a Cuba. Nel caso specifico la compagnia statale Rosneft. Fino ad oggi, però, le forniture russe di greggio all’Avana sono state scarse e non hanno avuto un carattere stabile: nel primo semestre del 2016 Mosca ha esportato appena 1.400 tonnellate di greggio per un valore di circa 250.000 dollari.

La posizione prudente espressa dal Ministero dell’Economia russo potrebbe però, secondo alcuni analisti, dare un segnale controcorrente di fronte alle frotte di investitori stranieri, americani, europei e asiatici che si susseguono all’Avana in cerca di contratti. Appare chiaro che il presidente Raùl non vuole ripetere la situazione di crisi -il cosiddetto Periodo especial – che venne a crearsi a Cuba dopo il 1991, a causa dell’implosione dell’Urss e di conseguenza della fine dei massicci aiuti economici sovietici.

Il Pil, allora, dovette contrarsi di più del 20% e i cittadini tirarono la cinghia fino al limite. Oggi il presidente cubano sceglie una soluzione più attenta alle esigenze della popolazione – anche per evitare una possibile esplosione di protesta sociale- assumendosi il rischio di sacrificare gli equilibri interni ed esterni dell’economia dell’isola.

Quella del governo cubano è anche una corsa contro il tempo: infatti ha già varato un piano per accelerare la produzione di energia mediante fonti alternative al combustibile fossile e rinnovabili. Nei giorni scorsi ha avuto luogo all’Avana una conferenza internazionale su questo tema. Il governo ha stipulato un accordo con una società spagnola che si occupa di energia solare, mentre è già stata decisa la costruzione di tredici parchi eolici.

Inoltre Raúl potrebbe avere un asso nella manica: alcune settimane fa la compagnia mineraria australiana Meo – impegnata nell’esplorazione di uno dei “blocchi” che il governo ha assegnato a varie compagnie petrolifere stranieri perché operino prospezioni alla ricerca di petrolio e gas- ha informato di aver trovato in terra ferma (vicino alla cittadina di Cardenas) a meno di mille metri di profondità un promettente giacimento, con una potenzialità di 8 miliardi di barili di greggio. La Meo Australia, nel suo web ufficiale, ha annunciato che inizierà i lavori di prospezione il prossimo anno.