Figurabilità dell’inquietudine contemporanea: è la traccia intorno a cui Lóránd Hegyi ha organizzato, nel Musée d’art moderne et contemporain di Saint-Étienne (di cui è direttore), una ricca e interrogativa panoramica di disegni, sull’arco di più generazioni a cominciare dal decano Jim Dine, classe 1935. Questi fogli di Intrigantes Incertitudes, piccoli come miniature o vasti come affreschi, si propongono, nel complesso, come un sismografo dello stato d’animo prevalente, non solo nel mondo dell’arte, dinanzi ai vacillanti confini con cui si presenta il futuro e lo stare al mondo. Si cerca invano una qualche ‘allegria’ nelle ariose sale bianche del museo francese, e del resto Hegyi si appoggia fiduciosamente, come dichiara nel saggio in catalogo, all’idea di Dennis Oppenheim – artista amico che egli ha esposto a Saint-Étienne l’anno in cui è scomparso, 2011, e accanto al quale è nato il progetto della mostra odierna – secondo cui l’«utilizzabilità» del proprio io in funzione espressiva non può che passare attraverso un processo di «auto-oscurità», di «immersione sciamanica» nella propria depressione.
Questa posizione e la selezione di opere che ne deriva implicano una certa consonanza con la tradizione, mai del tutto obliterata nel corso di oltre due secoli, di quelli che Giuliano Briganti definì «pittori dell’immaginario», Fuseli su tutti, i quali sul finire del Settecento mostrarono come la norma neoclassica non fosse in grado di arginare la pressione degli stati soggettivi e di elaborare una crisi delle coscienze altrettanto ‘epocale’ che la nostra: Hegyi pone in epigrafe al suo saggio, non per caso, il teorico del Sublime Edmund Burke. La domanda è dunque se si possa parlare, a proposito degli artisti convocati, di una forma contemporanea di Sublime, cioè di un’arte fondata su una posizione psicologica che sente la realtà sproporzionata e incombente a fronte delle ordinarie aspettative dell’io. Al posto della natura ‘naturale’ che ‘spaventava’ gli artisti dell’immaginario, si tratta qui, in linea di massima, della natura modificata da un ingegno bio-tecnico malriposto e dagli squilibri selvaggi del modello economico. Hegyi, critico esistenziale (quanto di più lontano dall’attuale tecnocrazia curatoriale), sembra particolarmente interessato agli elementi sovversivi che produce lo scontro dei processi creativi con tali disastrate referenze. Il quadro concettuale non giustifica più, evidentemente, un rapporto di primo grado con la realtà, non ci si può più ‘spaventare’ nel senso inteso da Burke, perché la malizia dell’io, in quello stesso momento, rivela il carattere di «messa in scena», di «artificio», di «narrativa intenzionale». Eppure, più si ‘ironizza’ il processo più le immagini sembrano ribellarsi, prendere una propria autonomia, appunto, sovversiva. Con le immagini non bisogna scherzare, sembra suggerire Hegyi: ogni forma di mediazione messa in opera da questi artisti, con il ricorso massiccio, in chiave spesso allegorica, al repertorio delle figurazioni arcaiche, popolari, museali, viene contestualmente distrutta dalle loro sensibilità epidermiche, dall’urgenza quasi biologica di essere presenti.
Le trasformazioni scabrose del corpo sono di casa, ora con richiami alla tradizione surrealista come nei lucidi acquarelli della bulgara Oda Jaune, ora ricorrendo in modo violento e provocatorio al repertorio della cultura popolare dei paesi di riferimento, ed è il caso dei piccoli horror della cilena tedeschizzata Sandra Vásquez de la Horra e degli acquarelli tribali del camerunese Barthélémy Toguo; i pastelli del torinese Guglielmo Castelli ‘miniaturizzano’ Bacon con perturbante giocosità, quelli dell’altro piemontese Ugo Giletta ragionano, frontalmente, sulla facies umana, ridotta a luogo dell’anonimia universale.
In questa carrellata di oscuri sogni corporali, un posto particolare occupano per il mitteleuropeo Hegyi, già direttore del Museo Ludwig a Vienna, gli azionisti, appunto, viennesi: la Sepoltura di Hermann Nitsch, grande serigrafia su tela in tre scomparti, ricorre al segno sottile e filamentoso a lui proprio, di radice secessionista, per notomizzare, radiograficamente, scheletri e organi, mentre meravigliano e turbano, proprio come nella mostra che, sempre qui, gli dedicò Hegyi nel 2007, i disegni a colori di Günter Brus, artista con cui il curatore ha realizzato negli anni un vero e proprio sodalizio. In questi fogli di un diario della disperazione, che Hegyi definisce «isterici», preme l’Austria della rivolta linguistica, dell’obiezione di coscienza che si fa solipsismo onirico. Anche in Brus i rimandi alla tradizione sono scoperti, dalle snodature di Schiele ai ‘sanguinolenti’ profili paesaggistici di Munch, ma tutto viene a bruciare nella personalità di un tratto ‘gettato’ nel cuore delle visioni: anche le allegorie più cervellotiche e baraccone sùbito diventano cronaca, e cronaca psichiatrica.
I truculenti Désordres di Marine Joatton, dove il pastello si fa quasi escremento; l’aguzzo fantasticare di Kiki Smith su carta nepalese, con il nudo femminile duplicato galleggiante nello spazio vuoto: tra questi due estremi stilistici, la casistica dei ragionamenti sul corpo presenta soluzioni le più varie, e soprattutto meno agganciate a una predominanza poetica, come invece era nella stagione vitalistica della Body-art.
Fra le intriganti incertezze di scena a Saint-Étienne ce n’è diverse che attingono all’universo della fiaba, rovesciandolo in incubo contemporaneo: una vera e propria linea di gusto, che rischia l’illustrazione, nelle ricerche espressive del momento. Vuole dire che si cerca una sponda culturalistica per tenere sotto controllo la malattia, per riuscire a dare figura ancóra, là dove il linguaggio rischia di naufragare. Il sapiente neo-espressionismo di Jim Dine (sapiente per la dimestichezza politecnica coniugata all’impeto informale) lavora su un’inquietante fissazione antropomorfa, dove la scimmia e il gatto sono «umanizzati» da un ambiguo allaccio, e se la devono anche vedere con l’apparizione metafisica di Pinocchio dalle viscere dell’Infanzia. Il caso dell’olandese Juul Kraijer ci riporta, dall’interno di una figurazione genericamente surrealista, all’ossessività certosina dei preraffaelliti e, più indietro, di quell’isolato visionario, importante per Redon, che fu l’acquafortista Rodolphe Bresdin. Nella Kraijer la dimensione fiabesca, realizzata ad ‘accumulo’ grafico, è tutta in funzione di un’idea patogena del corpo, luogo di trasformazioni. Anche nei set cinematografici a pastello del francese Pierre Seinturier l’atmosfera può essere favolistica, le situazioni sono circondate dall’angoscia dell’attesa, che ha la forma di un bosco dei Grimm.
Due artisti non facilmente rapportabili agli insiemi di senso su cui è costruita la mostra sono la star Jan Fabre, con i suoi incendiari disegni a penna a sfera incorniciati come fossero teatrini (fiammingo, troppo fiammingo!), e il francese Nicolas Dieterlé, morto giovane: gli inchiostri esposti risalgono alla produzione 1993-2000, e indicano lo stretto margine di un vero lirico, allarmato da brividi lunari, nelle cui circostanze di apocalisse saettano come meteore figure risapute del Museo occidentale.
Un’altra ‘voce’ a Hegyi assai cara è la «metafisica degli spazi», qui rappresentata dagli interni di Matt Bollinger, Gianni Dessì, Jana Gunstheimer e dai «paesaggi» di Matías Duville e Andrea Fogli. Lo straniamento ambientale è in tutti una costante, ma in questo contesto l’appoggiarsi a un immaginario culturale risulta più problematico, anche là dove, come nelle piccole tempere di Fogli, ispirate a Verne, è maneggiato con rara finezza di segno. Dessì, al contrario, si concentra sulla propria memoria personale, riproducendo, all’interno di un enorme interior a otto pannelli, a carboncino, una serie di opere realizzate nel corso degli anni. È una sorta di grandiosa pinacoteca dove le figure lottano per emergere a causa della porosità della carta che contrasta con le intenzioni disegnative. Come scrive Hegyi, spazio «oscuro» e «enigmatico», ma, aggiungiamo, percorso da un intenso interrogativo ‘umanistico’ sul perché e sul consistere delle immagini.