Lo schema è quello abbastanza diffuso nel cinema italiano: la doppia coppia, una di «destra», l’altra di «sinistra», che per qualche misteriosa ragione si frequentano e si stanno molto simpatiche. È quello che capita ai protagonisti di Dobbiamo parlare, coppia di sinistra intellettuale di cinquantenne ultra Vanni (lo stesso Rubini) e trentenne Linda , lui scrittore, lei (Isabella Ragonese) aspirante tale che per ora si accontenta di revisionare i testi di lui, casa con terrazza nel centro di Roma (almeno non al Pigneto) e molto amore di cui è testimone il pesce rosso narrante.

Certo l’ultimo libro di Vanni non è andato bene, per mantenere casa e comodità scrive fiction per la tv, lei invece rimane nella sua ombra ma desidera scrivere un romanzo suo. Però sono felici e si chiamano amore per ogni cosa, lei con pudore di sinistra si imbarazza anche ad avere la cameriera, il frigo è vuoto quasi sempre e in casa ci sono solo acqua e coca cola. Gli altri medico chirurgo lui (Fabrizio Bentivoglio) detto «il prof», e Costanza (Maria Pia Calzone, Donna Imma in Gomorra tv), dermatologa, secondo matrimonio, casa ai Parioli, cafonissimi che un Basquiat «lo fa meglio mio nipote» (ve lo meritate Alberto Sordi!), tre filippini – ma «volevo il pakistano» – che lei tratta come se «fosse Guantanamo».

I due sono in crisi, lei ha scoperto l’amante «zoccola» moglie del macellaio – che sarà pure il Bulgari dell’ossobuco ma sempre macellaio è – e sbraita più preoccupata dei soldi e dei beni che dell’amore. Da due anni ha un amante giovane ma si guarda bene di separarsi dal marito («sono i suo bancomat» si lamenta lui) come la invita a fare la stupefatta trentenne Linda che l’amato se fosse finita ci metterebbe cinque minuti a lasciarlo. Per sfogarsi il Prof e Costanza decidono a turno e poi tutti insieme di piombare a casa dei due malcapitati amici rovinandogli la serata e, in una notte, molte altre cose.

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Accuse, critiche reciproche, rinfacciamenti, frustrazioni, silenzi pieni di rimproveri con il solito «non scopiamo più da sei anni» lui s’addormenta sul divano o «ho bisogno di aria e di trovare la mia strada». Costruzione teatrale, battute di sicuro effetto (va detto alcune molto calzanti nella loro riconoscibile ispirazione) in questa commedia amara (o amareggiata) senza l’happy end de Il nome del figlio archibugiano e nemmeno la cattiveria del Virzì prima maniera ai tempi di Ferie d’agosto. Rubini nella progressione delle frasi «chiave» a cominciare dalla fatidica e pericolosissima «Dobbiamo parlare» sembra spostare il centro dalla coppia a una generazione, la sua, che appare sfinita nei suoi rapporti giovani o coetanei che siano, e forse pure un poco nella vita. Anche se rispetto alla ragazzetta, al quotidiano, bugie e scontri compresi sembrano molto più allenati del «tutto e subito» di un impeto giovane.

Il fatto è che tutti e quattro non sono un granché simpatici – e manco troppo diversi: pesantissimi e noiosi allo stesso modo, con qualche segretuccio mal riposto e molta voglia di rinfacciarsi malesseri personali scaricandoli a vicenda. La notte sarà infinita, i tradimenti da sfoderare a turno, i colpi bassi perché siamo amici, i bei ricordi di giornate passate insieme da sfogliare sullo smartphone.

In fondo nessuno si salva a modo suo (diciamo che non ci passeresti una serata) e la peggiore sembra proprio la ragazza, uscita di casa come le grida il suo amore, per vivere con lui, «da un padre all’altro» e farsi mantenere (ma a lui andava bene) , con un’antipatia che supera persino quella abituale riservata ai personaggi femminili dei film di Rubini. Il gjorno si leva, la casa sarà un campo di battaglia. Molte macerie, e un vago rancore. Un po’ di cattiveria in più avrebbe invece giovato.