Era stata una delle promesse del pur antiabortista presidente Nayib Bukele: quella, perlomeno, di «porre fine alla persecuzione sistematica delle donne che affrontano emergenze sanitarie durante le loro gravidanze». E non è stata mantenuta. Grande è l’indignazione dell’Agrupación Ciudadana por la Despenalización del Aborto di fronte alla condanna a 30 anni di carcere di Esme – così è stata chiamata la donna – che nel 2019 aveva avuto un aborto spontaneo nel mezzo di un’emergenza ostetrica. E che poi era stata tenuta per due anni in custodia preventiva, lontano dalla figlia di sette anni.

L’AVVOCATA della donna, Karla Vaquerano, ha già annunciato che farà ricorso, accusando il tribunale di «privilegiare la versione offerta dalla Procura generale, piena di stereotipi di genere».
Si tratta di un grave passo indietro, considerando che era da 7 anni che un tribunale salvadoregno non emetteva una sentenza di condanna contro una donna alle prese con un aborto spontaneo o dovuto ad una emergenza ostetrica e che, delle 181 donne processate per aborto o omicidio aggravato in casi analoghi, 64 erano state liberate negli ultimi due anni.
Del resto, lo scorso anno, l’Assemblea Legislativa controllata dal partito Nuevas Ideas di Bukele aveva bocciato il progetto di legge noto come “Reforma Beatriz” che mirava a depenalizzare l’aborto nei soliti tre casi di minaccia alla salute della madre, di stupro e di malformazione del feto. Una riforma così chiamata in omaggio a Beatriz García, la donna, poi scomparsa nel 2017, che nel 2013 aveva sollecitato invano dallo stato l’autorizzazione a interrompere la gravidanza per grave rischio alla sua salute e per altrettanto gravi malformazioni fetali, dando alla luce un bambino morto poche ore dopo.

Non sembra aver insegnato nulla neppure il caso di Manuela (altro nome di fantasia), la donna – che soffriva di un Linfoma di Hodgkin – accusata di essersi procurata un aborto per nascondere una presunta infedeltà e condannata più tardi a 30 anni di carcere per omicidio aggravato, per poi morire due anni dopo di cancro. Un caso su cui si era pronunciata nel 2021 la Corte interamericana per i diritti umani, riconoscendo lo stato colpevole di aver condannato arbitrariamente Manuela, sulla base di «pregiudizi e stereotipi di genere». Una sentenza storica salutata come un precedente di grande importanza in un paese in cui l’interruzione di gravidanza è proibita senza eccezioni e dove, come insegnano anche i casi di Manuela e di Esme, persino le donne che abortiscono spontaneamente o danno alla luce un neonato morto, soprattutto se prive di risorse economiche, con bassa scolarità e provenienti da aree rurali o da periferie urbane, possono andare incontro all’accusa di omicidio aggravato.

UN PRECEDENTE che non ha però impedito la condanna di Esme, il cui caso, ha denunciato ancora l’Agrupación Ciudadana, «riflette la criminalizzazione delle donne che vivono in condizioni di povertà, senza accesso all’educazione e ai servizi di salute».