Quando intona Sidùn, scritta dopo i massacri perpetrati nel 1982 dalle truppe di Ariel Sharon nella città di Sidone, i presenti intuiscono al volo l’intenzione di mettere in luce la «spaventosa contemporaneità» di un discorso avviato quarant’anni fa, senza neppure il bisogno di adeguare il vecchio testo al nuovo contesto. Difficile però misurare se sia sempre l’artista a essere in anticipo sui tempi o si tratti piuttosto del drammatico ritardo della nostra civiltà. Il quarantesimo anniversario di Crêuza de mä e le prove generali del tour partito lo scorso 21 giugno nelle sue Officine Meccaniche — sono l’occasione per intessere con Mauro Pagani un dialogo in cui il lessico musicale è indissolubile da quello sociale e politico. «Sembra non ci sia una via d’uscita, anche per colpa dell’evidente inadeguatezza delle istituzioni, dall’Ue agli Stati uniti fino all’Onu.

IL CONTESTO attuale è davvero fosco, ed è la fotografia di una generazione storica incapace di decidere il proprio futuro, vittima di un gruppo di matti». Vale per il conflitto russo-ucraino, per le tragedie dei migranti, per la questione mediorientale che preoccupa da tempo il 78enne musicista: «Già quarant’anni fa ero molto interessato e attento. Ero stato contattato da amici palestinesi per organizzare un concerto che contribuisse a sensibilizzare l’opinione pubblica sulla loro causa, poi è saltato tutto dopo le stragi di Sabra e Shatila. La stessa Pfm nel 1975 aveva fatto un concerto per la Palestina, suscitando l’incazzatura di molti… l’intera West Coast ci ripudiò».

DURANTE l’anteprima presso i suoi storici studi di registrazione milanesi, ulteriori segni di questa articolazione tra musica e politica si percepiscono nella nuova versione del brano che dà il titolo all’album firmato con Fabrizio De André: nel mantra «E anda…», il genovese antico dialoga con la lingua wolof di Badara Seck, «fratello africano» la cui voce evoca la possibilità di espandere il significato di «Mediterraneo» — almeno nella stupenda finzione della canzone — per includere al suo interno civiltà che la società occidentale fatica a integrare. «È terrificante. Il Mediterraneo è il mare su cui hanno navigato le nostre culture… usiamo ancora i numeri arabi e la nostra medicina è fondata sulle ricerche compiute dagli stessi arabi, che hanno capito prima di tutti com’è fatto il corpo umano. Il Mediterraneo era ricolmo di cultura, da una costa all’altra. Oggi è diventato un mare di morte, e la cosa più orrenda è che siamo ormai anestetizzati, insensibili alla tragedia. Badara, che collabora con il suo governo e con alcune associazioni, spesso va fino ai limiti del deserto per accogliere persone partite a piedi dalla Mauritania, cercando assieme ad altri di dissuaderle dal proseguire un viaggio fatto di mesi di marcia nel deserto e di gente seppellita nella sabbia, ancor prima della traversata in mare con i mercanti di uomini. Badara parla con loro, spiega, racconta e ci racconta i loro sogni: perché la società occidentale è stata brava, a costruire sogni».

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MA QUESTA concezione panmediterranea, assicura Pagani, era già presente nell’idea originaria di Crêuza de mä, per la cui realizzazione cita ad esempio il ruolo determinante di Allan Goldberg, tecnico del suono dei leggendari Stone Castle Studios al castello di Carimate, «luminare a livello europeo per la costruzione dei nuovi convertitori digitali, ma soprattutto ebreo sudafricano venuto in Italia per lavorare. Un esperto di musica sudafricana, la stessa che nel 1986 avrebbe incantato Paul Simon per Graceland. Ma più che essere uno dei primi dischi di world music italiana, Crêuza de mä è uno degli ultimi di una storia iniziata vent’anni prima con la Nuova Compagnia di Canto Popolare, i Dischi del Sole, il Canzoniere del Lazio, le ricerche di Lomax, Leydi, De Martino e molti altri».

Una storia di cui egli stesso è stato primo attore, specialmente dopo la fuoriuscita dalla Pfm: «In quegli anni l’Italia era all’avanguardia nel rapporto tra mercato discografico e musica popolare, poi siamo caduti in preda a un’industria miope e sorda che ha abbandonato quel percorso, lasciando ad esempio uno spazio enorme alla Francia, che ha anche approfittato delle culture musicali introdotte dai cittadini provenienti dalle sue colonie. Erano gli anni in cui nei negozi di dischi trovavi musica folk, valzer, jodel, tango, i dischi della Albatros e dell’Unesco… era tutto mischiato, ma c’era. E Crêuza de mä ha risentito di tutto questo».

Nel recuperare la sua creatura più cara per farla parlare al presente, il suo co-autore riprende considerazioni tese a riattualizzare la connessione tra musica e società che tanto gli sta a cuore, un rapporto da tempo paralizzato in una sorta di impasse. «In giro c’è musica bellissima, ma facciamo fatica a trovarla, anche perché le radio sono in gran parte commerciali e dipendenti dall’industria, la quale non vende ricerca ma merce. Siamo ricoperti da milioni di metri cubi di merce, è mercificata la musica d’intrattenimento, quella da ballo, persino la musica sperimentale; anche i social in realtà vendono possibilità di distribuzione ma non di contenuti. È un periodo di stallo preoccupante… magari c’è un genio in Lituania che sta scrivendo musica stupenda, ma come fai a saperlo?».

GLI ARTISTI, dal canto loro, hanno la responsabilità di opporsi alla «teoria del divertimento frivolo come antidoto ai problemi». Per uscire da questo stallo, Pagani vede un’unica via d’uscita, suggerita ancora una volta dalla storia sociale della musica: «Non voglio sia letto come un cattivo augurio ma abbiamo bisogno di un’esplosione sociale. Il rock’n’roll è nato dai reduci della guerra di Corea, che sono tornati a casa e, siccome erano trattati come delle merde per aver perso la guerra, hanno pensato: beh, è così? Allora voglio tutto e subito. Dovremmo farlo anche noi, dovremmo sempre fare in modo di vivere una vita degna di essere vissuta».