Lo stato delle specie marine, nonostante siano noti i pericoli posti dal riscaldamento delle acque dovuto ai cambiamenti climatici, dall’inquinamento e dal sovrasfruttamento industriale della pesca, peggiora progressivamente da molti anni. Il 31,4 per cento degli stock ittici risulta pescato a un livello biologicamente insostenibile, il 58,1 per cento è oggetto di pesca al limite della capacità mentre solo il 10,5 per cento delle specie non è sotto stress.

Le 10 specie marine più produttive rappresentano, secondo la Fao, circa il 27 per cento della pesca marina rilevata ma è per lo più sfruttata al limite delle proprie capacità quindi a rischio potenziale.

Gli stock, così fortemente sotto stress, non riescono a riprodursi come un tempo: la capacità globale di ripascimento, secondo uno studio della World Bank, si è ridotta di sei volte tra il 1970 e il 2005. Un vero problema di sopravvivenza per il pianeta, oltre che di mantenimento della biodiversità, visto che secondo la Fao il consumo mondiale di pesce è proiettato a crescere entro il 2025 di 31 milioni di tonnellate, raggiungendo la quota record di 178 milioni di tonnellate l’anno.

Questo porterà, da un lato, ad una pressione inedita sul mercato ittico dove già nel 2016 si sono registrate flessioni importanti e improvvise di disponibilità (dalle -24 mila tonnellate per il merluzzo dell’Alaska ai –2 milioni 535 mila tonnellate di acciughe peruviane in un solo anno), ma anche a un aumento dei prezzi, che causeranno problemi non banali alla sopravvivenza dei più poveri, dovuto non soltanto alla minore quantità di pesce, ma anche ai maggiori controlli richiesti per arginare l’ennesima catastrofe ambientale annunciata.