Nel 2015, dopo sette Rocky e a quasi quarant’anni dalla nascita dello stallone italiano di Filadelfia, con dolcezza e intuito sublimi, Sylvester Stallone depositò la sua franchise personale tra le braccia di un giovane regista afroamericano che aveva al suo attivo solo un film indipendente e personalissimo, ispirato da un omicidio della polizia alla stazione della metropolitana di Oakland, Fruitvale Station. Ryan Coogler non tradì la fiducia di Sly, rilanciando per le nuove generazioni l’ammaccata ma intramontabile saga pugilistica, nello spirito di lirica blue collar del suo fondatore. Al suo cuore, non un nuovo campione italoamericano, ma il figlio del suo più acerrimo nemico/amico, Apollo Creed, interpretato da Michael B. Jordan. Rocky Balboa, nei panni di allenatore e padre putativo, sedeva orgoglioso in panchina.

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«Creed II», il tempo dell’eroe operaioAl terzo capitolo della nuova incarnazione di Rocky – e due Black Panther dopo – quella panchina è vuota. Stallone firma come produttore ma non appare nel film, causa – sembra – disaccordi creativi. Volevano portare il film in una direzione troppo dark, si è rammaricato Sly in alcune interviste. In effetti, se la sua assenza dispiace, non pesa. E, qualunque sia stato il disaccordo creativo, Ryan Coogler – che firma lo script insieme al fratello Keenan (attore in Fruitvale Station e sceneggiatore di Space Jam) continua a non tradire lo spirito di Rocky, pur personalizzando la franchise al punto di potersi permettere di lasciare la regia del film alla sua star, Michael B. Jordan.
Creed III apre con il ritiro dal ring di Adonis (Jordan), campione indiscusso. Ma il quadro di adorazione popolare, armonia famigliare e lusso da superstar sportiva che caratterizzano la sua esistenza «post» viene improvvisamente invaso da un fantasma. Si chiama Damian Anderson (Jonathan Majors), ed è stato rigurgitato dal passato oscuro di Donis, quello di cui si sa poco, perché lui non vuole parlarne, nemmeno alla «sua Adriana», la comprensiva moglie (Thessa Thompson).

IN QUEL PASSATO, in cui Damian e Adonis erano amici per la pelle in una casa famiglia, c’è anche l’episodio scatenante del destino dei due ragazzi, per cui uno finirà in prigione e l’altro campione mondiale dei massimi. Uscito dal carcere, Damien vuole la sua parte, una carriera nel pugilato. La loro resa dei conti non può che materializzarsi sul ring. Majors (protagonista dell’indie The Last Black Man in San Francisco e del recente successo di Sundance, Magazine Dreams; ha appena fatto la sua prima apparizione, come Kang il conquistatore, nell’universo Marvel in Ant-Man and the Wasp) porta una rabbia dolorosa e una fisicità nervosa, volatile al ruolo dell’antagonista, che ben contrasta con la coolness malinconica e guardinga di Jordan. Non è un caso che Damian sul ring si presenti con i semplici calzoncini neri e il poncho di spugna con cappuccio dello stesso colore resi famosi dal primo Tyson, il pugile più rabbioso della storia dei massimi. Dietro alla macchina da presa, Jordan non porta al film il classicismo di Stallone che Coogler aveva istintivamente condiviso in Creed. Il suo occhio è più patinato, la boxe più cattiva e la mise en scene stilizzata, al punto che l’incontro finale diventa quasi astratto, un duello anime.