Una notizia buona e alcune altre cattive per le banche italiane.

La Corte di Giustizia dell’Unione europea di primo grado ha annullato la decisione della Commissione europea del 2015 che aveva impedito l’intervento del Fondo interbancario di tutela dei depositi per salvare la piccola Banca Tercas. Il Tribunale conferma l’impostazione, che a suo tempo fu di Banca d’Italia, secondo cui tale intervento non era catalogabile come aiuto di Stato, dunque era possibile anche per le regole dell’Unione.

Se questa decisione fosse stata presa allora, avrebbe consentito la possibilità di salvare i correntisti delle banche poi fallite. Invece nel definire il Fondo interbancario prevalse la logica che evidenziava regia e garanzie pubbliche di contro alla partecipazione degli istituti privati. Il presidente dell’Abi, Antonio Patuelli, ora tuona che l’Europa risarcisca correntisti e istituti vittime del mancato intervento finanziario di sostegno. Ipotesi complicata e non immediata, dato che la Commissione europea ha tempo due mesi per fare ricorso nei confronti di questa sentenza, ma che favorisce l’individuazione privilegiata di un unico responsabile, per giunta fuori dai confini nazionali. Insomma un ragionamento facile di questi tempi.

Quel che è certo è che, al di là di come potranno essere utilizzate risorse e garanzie pubbliche per gli istituti più piccoli, la decisione del Tribunale europeo consente di aggiungere un’arma nella difesa futura delle banche in crisi. E qui veniamo alle notizie meno positive e dal carattere più strutturale che accompagnano il sistema del credito italiano. Dopo un paio di anni in cui i crediti deteriorati delle banche erano in contrazione, benché restino tra i più elevati d’Europa, ora Banca d‘Italia comunica che tornano a crescere passando, al netto dei fondi di rettifica, dai 31,87 miliardi di dicembre agli attuali 33,42, cioè si registra un incremento di oltre 1,5 miliardi di euro. Banca d’Italia parla, inoltre, di una crescita del credito a gennaio del 2019 dimezzata su base annua. A ciò si aggiunga che le banche, specie minori, stanno investendo molto su titoli pubblici italiani, in ragione dei rendimenti tutto sommato elevati, e meno in attività tradizionali.

Ciò si traduce in minori risorse finanziarie dedicate all’economia reale. In Bce invece si ragiona su una regolamentazione al fine di ridurre le quote di debito sovrano detenute dagli istituti e contestualmente rilanciare programmi di finanziamento a tassi irrisori in sostituzione del sostegno rappresentato dal Quantitative easing. Il dato complessivo è che la sostanziale stagnazione, se non addirittura recessione, incomincia a mostrare i suoi effetti.

Le difficoltà nel mondo del credito costituiscono più che un elemento per denunciare limiti e malaffare delle solite banche da incriminare, sono un ben più profondo campanello d’allarme sullo stato dell’economia. La contrazione della domanda di credito è la prova del nove dello stallo generale e ci dice come i provvedimenti che ipotizza Mario Draghi rischino di mancare l’obiettivo. I precedenti programmi di finanziamento rivolti specificatamente alle imprese (Tltro e Ltro) non a caso non centrarono l’obiettivo e si dovette giungere al Qe, più corposo e sbilanciato sul lato della finanza.

Quest’ultimo a posteriori si è confermato come un espediente utile a guadagnare tempo, ma non a risolvere in maniera duratura i limiti strutturali dell’economia contemporanea. Quando, infatti, la domanda ristagna e l’incertezza cresce, allora le imprese, comprese quelle grandi, riducono la loro richiesta di prestiti e a loro volta le banche considerano più rischioso concederli, restringendo l’offerta di credito che finisce per colpire le aziende, specie più piccole. Un bel dilemma.