A Pavia ieri c’era il sole. E un bel cielo, come se ne vedono pochi. Andrea Rocchelli, il fotografo ucciso una settimana fa a Slaviansk, la cittadina nel cuore della guerra civile ucraina, è stato salutato da 500 persone, nel chiostro del monastero longobardo che ospita il seminario diocesiano della città. I sanpietrini per terra, le arcate tutt’intorno, a contenere la folla di parenti, amici, colleghi. In mezzo lui.

Sono arrivati in tanti. Hanno formato un cerchio. Avvicinatevi- ha chiesto il prete, amico del fotografo – come un abbraccio. Una bara sobria, sul coperchio una manciata di fiori di campo. Andrea è stato accompagnato al centro dai suoi amici di sempre, quelli che con lui hanno condiviso la tavola, un bicchiere di vino. E gli anni della passione. Una cerimonia senza fronzoli e senza ufficialità, nonostante la presenza discreta all’esterno di telecamere e giornalisti e l’omaggio del vescovo di Pavia, Mons. Giudici. Non un applauso, come richiesto. Molte le parole.

Sono arrivate dritte, come le foto di Andrea e le storie che raccontava. Luce, sale, giustizia, testimonianza di pace, al centro della predica. Gli stessi ideali che ti stimolano a cercare – una storia, un senso- imparati tra i banchi della chiesa o nelle piazze delle rivoluzioni. Andrea, Andy, era una persona gentile. Onesta. Un giusto per chi lo conosceva bene. Chi non ha avuto il tempo, ha potuto farsi un’idea di chi fosse, grazie alle parole di chi è cresciuto con lui o, come nel caso di una donna ucraina, conosciuta poco prima, di chi ha voluto portare il ringraziamento della propria comunità per l’impegno del giovane fotografo. Prima, a parlare, era stato un caro amico di Andy, senegalese di origini. Ha confidato una gioia che non cede davanti alla disperazione. «Sono animista- ha detto- credo che dopo la morte ci si trasformi in terra, acqua, aria».

Infine, i suoi compagni di Cesura si sono rappresentati con le sue stesse parole: «restiamo editori indipendenti per fare ancora la differenza» nel raccontare. Il collettivo della Val Tidone aveva pubblicato un ricordo, a caldo, dell’amico. Terminava con una sua virtù che oggi suona come un manifesto: «crear di molto da quel poco». Capace di restare umano, sapeva non infierire su quello che di brutto accade e restituire la dignità che la guerra, i soprusi e la cecità ti tolgono. E questo non si impara sui libri, fa parte della scuola dei giornalisti dalle scarpe consumate, di quelli che saltano sugli aerei con la stessa facilità con cui si salirebbe su un tram.

E non importa se le ore di sonno sono sempre poche, se non si ha il tempo di cenare e se, per qualcuno, ciò che racconti è scomodo. Lo incontravi nelle piazze, tra le barricate, vicino (questa volta troppo vicino) a dove si spara.
Ci metteva la faccia, senza protagonismo o quell’ambizione che ti porta a smarrire il senso per cui si parte. Non era uno sprovveduto, Andrea. Era uno che per capire le cose ci infilava il naso, entrambi i piedi, la testa e poi l’obiettivo. Ma solo dopo averci messo il cuore. Le cose, il più delle volte o si capiscono così o altrimenti si capiscono a metà. E per quel tono di grigio, tipico delle retrovie, non sembrava esserci spazio nelle sue fotografie.

Bianche nere. O a colori. Lascia la sua compagna, il suo bambino e un’eredità difficile da raccogliere.

Ma di cui andare fieri.