«Ad un tratto la verità brutale ristabilisce il rapporto tra me e la realtà. Quei nidi di vespe sfondati sono case, abitazioni, o meglio lo erano», scriveva Alberto Moravia in un articolo intitolato Ho visto morire il Sud all’indomani del terremoto di proporzioni catastrofiche che il 23 novembre 1980 in 90 secondi circa squassò l’Irpinia e non solo con un epicentro tra Teora, Castelnuovo di Conza e Conza della Campania (con Laviano, Lioni, Sant’Angelo dei Lombardi, Senerchia, Calabritto e Santomenna i comuni più duramente colpiti). 40 anni di una ricorrenza – che si tratti di un evento positivo o negativo – è una data importante. Ma in questo caso bisognerebbe liberarsi da celebrazioni rituali e scontate all’insegna del senso di colpa, del conto aperto con la Storia, delle recriminazioni e le lacrime di coccodrillo per gli errori, le sviste, le sottovalutazioni, il cinismo politico, l’affarismo e la gestione dell’onnipresente criminalità organizzata.

E l’operazione di Michele Schiavino, critico, cineasta e operatore culturale irpino di nascita e salernitano di adozione, si muove in una direzione sui generis se non altro perché vuole rivitalizzare la memoria spalmandola in un lungo arco di tempo, vuole più che attualizzare la riflessione critica sulla gestione del dopo-Terremoto, tenerla viva sulla connessione tra il passato e il presente/futuro senza fratture temporali, sintonizzandosi su un flusso continuo di immagini, suoni e suggestioni che al di là di fisiologici scarti tra la qualità audiovisiva degli anni ’70 -’80 e le immagini e i suoni dell’era digitale, rivendicano un’ omogeneità etica e culturale, un percorso creativo che allude a una dimensione «alta», spirituale, quasi decontestualizzata per risemantizzare il significato profondo di una rinascita epifanica che è inutile attendere dalla politica e dalla cultura di regime a comando. E partendo da un’intervista radiofonica del 2006 come introduzione al suo terremoto, ha ripreso il cortometraggio Cratere del 2000 su immagini girate nel dopo terremoto con la solo musica di Paolo Fresu ispirata allo Stabat Mater di Pergolesi, un viaggio, una via Crucis attraverso le macerie dei paesi dell’Alto Sele, per ridargli una «nuova vita» cinematografica finalizzata a un rinnovato afflato culturale e politico.

La versione che ha appena terminato di montare con l’aggiunta di altri materiali inediti per una durata di 16 minuti circa, è un’edizione speciale in dvd, una copia unica con colonna sonora di Fresu e le cover tratte da una opera originale dello scultore Lello Esposito, prodotta specificamente per il Presidente della Repubblica al quale è stato donato venerdì 20 nel corso di un incontro al Quirinale da una delegazione di ALI (Lega Autonomie Locali) della Campania in rappresentanza dei Sindaci dei Comuni colpiti dal sisma. L’unicità del dono ha un valore artistico e culturale ma anche simbolico per come potrebbe segnare l’inizio, compatibilmente con la fase che attraversa il Paese, di ulteriori iniziative sui luoghi del sisma. «Cratere è una preghiera, appartiene ai canti, quei miei film che esprimono un lutto per qualcosa che non voglio venga dimenticata. – dice l’autore -Tutto il mio lavoro su Pasolini va in questa direzione. In particolare Cratere mi tocca perché attraverso un territorio a me caro.

Quello dove sono nato, Calabritto il paese di mia madre e Castelnuovo di Conza dove è nato mio padre. Il terremoto dell’80 si portò via in poco meno di un minuto tutto un immaginario, un mondo che ci aveva meravigliati da bambini. Per me il film era una preghiera che andavo a rappresentare. Un profondo dolore per un mondo che non esiste più. Un canto sacro appunto. Le immagini nuove danno un’informazione di ciò che apparve ai miei occhi la mattina del 24 Novembre 1980 quando arrivai a Laviano distrutta. Immagini di morte, i cadaveri allineati, corpi che uscivano dalle macerie, le voci di chi cercava disperatamente aiuto. Ecco, in silenzio Cratere è tutto questo». E ora cosa succede? Dove, come e quando si potrà vedere il nuovo Cratere? Non si sa, forse tra vent’anni visto che Schiavino dopo il primo documentario del 1980, il primo Cratere del 2000 e l’edizione speciale del 2020 interviene appunto ogni 20 anni.

In realtà a parte gli slittamenti e l’eliminazione di molti eventi non solo cinematografici per l’emergenza Covid tra i quali una rassegna progettata da Schiavino di tutti i suoi film sul terremoto irpino, l’autore non è interessato più di tanto ad allestire una delle tante celebrazioni, non ha l’urgenza (come lo era invece quella del fare appena si verificò il sisma) di (far) ricordare i tragici eventi, per lui è più importante non dimenticare, disancorare il terremoto in tutte le sue declinazioni dai vincoli spazio-temporali. Sì, perché il blocco di immagini (e suoni) sporchi usati fa rimbalzare la memoria per farla fluttuare liberamente come le note di Paolo Fresu in forma di preghiera.

Sull’asse rosselliniano di Stromboli la cui protagonista piange e prega 30 anni prima del terremoto irpino, poi si rialza come tutti i sopravvissuti a una catastrofe e forse non è un caso (l’inconscio è sempre rivelatore) che Michele ha intitolato il film Cratere in un aggancio ideale con un film-chiave di uno degli autori che più ama e al quale ha dedicato alcuni documentari. Insomma tutta l’operazione da come è stata concepita, come si è sviluppata e come arriverà ai possibili fruitori sembra disintegrare lacanianamente l’ordine simbolico. E la migliore epigrafe è la descrizione impressionistica e neorealistica degli effetti devastanti del sisma dello stesso Schiavino: «La ruspa con quei denti che scavano… il bianco e nero… poi d’improvviso un barlume di colore che quasi si pente… la pioggia che sembra l’unica cosa umana. Gli occhi dei bambini e ognuno che mastica qualcosa in bocca…la pioggia che sembra l’unica cosa umana. Una catastrofe la devi guardare, vivere, soffrire. No, dimenticarla no. Imparare. È la condizione di noi sopravvissuti».