Si arrampicano su autobus strapieni alle porte del Sahara, salgono su gommoni pericolanti lungo le coste del Mediterraneo, si aggrappano sotto ai camion nei porti dell’Adriatico. Viaggiano con gli altri migranti, ma sono diversi: sono più piccoli. I minori stranieri non accompagnati (Msna) si lasciano alle spalle situazioni diverse, ma accomunate dall’impossibilità di vivere fino in fondo infanzia o adolescenza. Quando giungono a destinazione provano a riallacciare i fili della propria storia personale e ricostruire fiducia verso il mondo degli adulti. Un processo lungo e complicato, su cui la pandemia sta avendo gli effetti di un terremoto.

I NUMERI

Nel 2020 sono arrivati 4.224 minori non accompagnati (fonte Viminale). Oltre il doppio del 2019 (1.680) e più del 2018 (3.536). Secondo il ministero del Lavoro, il 31 ottobre erano 6.227 in totale: 6.006 ragazzi (96,5%) e 221 ragazze (il 3,5%). La gran parte dei maschi è vicina alla maggiore età: l’88% ha 16 o 17 anni. Le prime tre nazionalità sono Bangladesh (1.270), Albania (1.095) e Tunisia (695). Più bassa l’età media delle minori: le sedicenni e diciassettenni sono il 64,4%. Ragazze e bambine vengono soprattutto da Albania (41), Costa d’Avorio (33) e Nigeria (22).

ARRIVO

Dietro i numeri ci sono le storie singolari di chi ha dovuto affrontare un viaggio più o meno lungo, più o meno difficile. Drammatica è quella di Abou Diakite, nato nel 2005 nella città ivoriana di Daloa e partito già orfano a 13 anni, con alcuni amici. Attraversa Algeria e Libia, dove viene rinchiuso per mesi in un centro di prigionia. Finalmente riesce a imbarcarsi per tentare di attraversare il mare. Il 10 settembre è soccorso dalla Ong Open Arms. Il 5 ottobre muore nell’ospedale Ingrassia di Palermo. In mezzo ci sono la settimana trascorsa a bordo dell’imbarcazione umanitaria e poi il trasferimento sulla nave quarantena Allegra, da cui viene evacuato d’urgenza.

A inizio gennaio si saprà cosa lo ha ucciso, dice Alessandra Puccio. La tutrice è stata nominata dal tribunale dei minori di Palermo il primo ottobre, quando il ragazzo era già ricoverato in condizioni gravissime. Secondo la «legge Zampa» (47/2017) la nomina sarebbe dovuta avvenire entro 72 ore dall’arrivo. Il problema è che la quarantena sulle navi rompe il vincolo territoriale necessario alla procedura e sospende il tempo. Dopo il tragico episodio diverse associazioni siciliane guidate dal garante dell’Infanzia e dell’adolescenza Pasquale D’Andrea si sono mobilitate per chiedere di cambiare sistema. Dal Viminale fanno sapere che ora l’indicazione è di cercare spazi idonei a terra e che al momento non ci sono più minori non accompagnati in quarantena sulle navi. «La nostra azione ha avuto un risultato positivo – afferma D’Andrea – È stato anche deciso che fino a quando i ragazzi non entrano nel sistema di accoglienza, la Croce rossa deve fare le veci del tutore».

ACCOGLIENZA

Lezioni a singhiozzo, relazioni sociali limitate e attività di svago sospese hanno creato disagio e sofferenza tra bambini e ragazzi di tutte le nazionalità. Per quelli che si trovano in un paese straniero senza il sostegno quotidiano dei genitori questi sentimenti pesano come macigni. La Sicilia è la regione che ne ospita il maggior numero: 1.402. Nelle comunità di accoglienza di Palermo il lockdown della prima ondata è durato un mese in più, una scelta dettata dalla prudenza. «Restare chiusi per tanto tempo ha fatto riemergere fenomeni di disturbo post-traumatico. Molti, con le dovute differenze, hanno rivissuto il sentimento della prigionia libica», racconta Maria Chiara Monti, etnopsicologa del Centro Penc, che segue quasi 40 minori stranieri nel capoluogo siciliano. L’incertezza esistenziale ha provocato alterazioni del comportamento e perfino reazioni psicosomatiche. Tra i neomaggiorenni che erano riusciti a trovare un lavoro, il ritorno della disoccupazione e l’interruzione delle rimesse verso la famiglia hanno alimentato frustrazione personale e depressione. L’autostima appena riconquistata si è infranta contro un nuovo muro.

«Con la seconda ondata sono arrivati i contagi – continua Monti – Un’esperienza nuova, di fronte alla quale i ragazzi sono impreparati. Alcuni non accettano la quarantena o il trasferimento nei Covid Hotel perché sono asintomatici e non mettono a fuoco che la positività costituisce un pericolo. C’è chi ha risposto con una negazione, non accettando il risultato del tampone, o con sospetti e paranoie, che sono anche esiti di storie pregresse di violenza subita e sfiducia verso le istituzioni».

AUTONOMIA

Il percorso di accoglienza termina tra i 18 e i 21 anni. Alla fine i ragazzi dovrebbero aver imparato l’italiano, ottenuto un vero permesso di soggiorno e magari trovato un lavoro. Il Covid è andato a sbattere su tutti questi fronti come uno tsunami. «Per rimanere nelle comunità da maggiorenni serve una decisione che il tribunale prende in base ai percorsi formativi, linguistici e di inclusione. Ma ora sono tutti bloccati – spiega Erminia Rizzi, dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) – È necessario che i tribunali dispongano il prolungamento di accoglienza e permesso di soggiorno per affidamento a prescindere dai percorsi».

Le cose non vanno meglio per chi dall’accoglienza deve uscire. «I neomaggiorenni stanno vivendo un periodo difficile. Per convertire il documento in un permesso per lavoro serve un contratto, ma le assunzioni sono ferme. Soprattutto dove questi ragazzi sono generalmente impiegati: ristoranti, alberghi, bar, settore turistico – afferma Gianluca Dicandia, avvocato di CivicoZero Onlus – Chi invece non ha un impiego e deve chiedere il permesso per attesa occupazione entra in una giungla». Bisogna trovare documenti che i ragazzi non hanno: è più complicato farseli spedire dal paese d’origine e poi molte ambasciate sono chiuse o non rilasciano passaporti. Il rischio concreto è la clandestinità. Durante la prima ondata il governo ha prolungato i permessi in scadenza fino al 31 agosto, poi più nulla. «L’emergenza, però, non è finita quest’estate», avverte Dicandia.