Il Leone del futuro, Premio Venezia Opera Prima Luigi De Laurentis, è andato a Court (Tribunale) di Chaitanya Tamhane, unico film indiano a Venezia 71, nella sezione Orizzonti, dove ha vinto anche come miglior film. Che cosa avrà affascinato le due giurie? Forse il duplice piano di finzione e documentario uniti in uno sguardo contemporaneo, a tratti fugace, a favore di una storia semplice, ambientata in un universo plurilingue, pluriculturale, pluriclassista. Con leggi che si rifanno in parte all’invecchiato spirito occidentale dettato dal British Commonwealth, che per oltre un secolo aveva cercato di dominare quell’enorme colonia, e in parte alle antiche tradizioni di un sistema sociale suddiviso in caste.

Al centro della storia c’è l’arresto di Narayan Kamble, cantautore indiano, 65 anni, insegnante a tempo perso: nel mezzo di un concerto in una piazza di periferia (potrebbe essere ovunque nel mondo), alcuni poliziotti salgono sul palco per portarlo via. L’accusa è di aver istigato al suicidio un operaio che lavorava alle pulizie delle fogne. Kamble viene arrestato e portato davanti a un tribunale. La sua colpa? Lo spirito critico che canta in uno degli slum sovraffollati dove si vive nelle più misere condizioni dal punto di vista igienico.

Assistiamo a un interminabile iter giudiziario, dove si rinvia di seduta in seduta il verdetto, e gli interminabili soliloqui in «avvocatese» rendono quel mondo estraneo e rallentato. Aspetto evidenziato da inquadrature lunghe anche soltanto sulla corte affollata, tutti in attesa, mentre l’obiettivo puntato sul corridoio dove passa strascicando i piedi un’anziana guardiana. «Partecipando ad alcuni processi nella città in cui abito, Bombay, ho notato la potenza da spettacolo e quel linguaggio tecnico ostico ai più, e mi era sembrato un ottimo punto di partenza per scrivere questo film», ha detto il regista, nato nel 1987 nella metropoli più occidentalizzata e più british dell’India. Tra i numerosi festival internazionali toccati col suo primo corto, Six Strands, quattro anni fa, c’era stato anche quello di Rotterdam, al cui Fondo Hubert Bals che finanzia opere indipendenti dal sud del mondo si è rivolto per un contributo a questo primo lungometraggio. «La giustizia non viene negata, piuttosto è procrastinata» – ,aggiunge Tamhane – È un meccanismo che purtroppo ritroviamo anche in altri campi e comune a tanti altri paesi».
Il «fuori campo» del film rinvia al mondo «fuori» da quella corte e ci introduce nelle sfere private dei protagonisti, attraverso domande del tipo: «come vive l’avvocato?». Oppure: «Che uomo è il giudice? Come se la passa l’accusato in prigione? Chi era la persona morta in quelle misteriose circostanze?» «Sono tutti vittime del sistema, o meglio di quelle che per me sono umiliazioni perenni, su tutti i fronti . Nel lavoro di scrittura un riferimento molto importante è stato il cortometraggio di Kieslowski, The office. Ma anche alcuni documentari indiani sul sistema giudiziario, e gli articoli sui giornali che riferiscono sempre più frequentemente di arresti degli artisti di strada», racconta e ribadisce ancora Tamhane, che firma anche la sceneggiatura del film.
Filo rosso della narrazione infatti, è la domanda che viene posta subito in modo molto netto: era o non era suicidio? Può una canzone spingere a un atto simile? La ricerca di una possibile risposta costruisce una trama complessa, in cui si ritrovano i molteplici aspetti di una società altrettanto sfaccettata come quella indiana – anzi: «di Bombay, essendo l’India composta da tante realtà, culture e lingue diverse che ognuna meriterebbe un film a parte» precisa il regista.

Court segue una struttura orizzontale, in cui le varie situazioni che si presentano, affrontate una per una, aprono squarci profondi di analisi socio-politiche e personal. E questo suo svolgersi è come uno schiaffo (nel vero senso della parola, e quindi quale metafora migliore per esprimere l’autorità tout court?), lo stesso che pone fine al fastidio inferto da un gruppetto di bambini «giocosi» al giudice il quale voleva godersi un attimo di riposo su una panchina in mezzo al verde, un po’ appartato rispetto alla festa tra parenti e amici, dopo aver chiacchierato e consigliato a un parente di rifarsi alla filosofia buddhista onde risolvere un conflitto interpersonale.

Allo stesso tempo quel gesto autoritario, non autorevole, pone fine al film. «Stiamo assistendo a tanti crolli di sistemi sociali, sarebbe stato troppo facile suddividere buoni e cattivi, presunti, in nette categorie distinte. Ho voluto raccontare a favore di una catarsi che va a formarsi nella mente dello spettatore, affinché sia il pubblico stesso a trarre le sue conclusioni, non condizionato però da personaggi costruiti secondo i canoni classici di giustizia da una parte e ingiustizia dall’altra. Sarebbe noioso!», spiega Tamhane.

Nell’osservare gli aspetti ritratti nel film, verrebbe da dire che c’è un discorso critico nei confronti di un paese moderno alle prese con un sistema giuridico e di tradizioni culturali che lo imprigiona. «Rappresento la realtà che viviamo tutti i giorni, creando una sorta di tessuto socio-culturale della metropoli più violenta del nostro enorme paese, travalicata dalla modernità che si scontra con valori tradizionali». Un conflitto che si percepisce anche nella musica, che non agisce come tappeto dei sentimenti precotti, ma come un fraseggio emozionale a un film lucido e commuovente.