Per raccontare Maria Hadfield Cosway sarebbe bene partire da un autoritratto del 1787 che la vede seduta su una poltrona di raso rosso con le braccia conserte e uno strano, indecifrabile sguardo a metà fra l’ironia e la sfida. Un laccio di velluto attorno al collo a cui è appeso un crocefisso e una pietra a forma di cuore che ne unisce le estremità; i capelli biondi vaporosi e un vestito color giallo con ampi pizzi bianchi secondo la migliore moda tardo settecentesca, caratterizzano una donna giovane e attraente. Ma è lo sguardo, che conta: quello di una donna che non ha alcuna intenzione di sottostare a regole a cui non crede e che, anzi, ha la precisa volontà di andare avanti per la sua strada, qualunque essa sia.

Nata a Firenze nel 1760 da padre inglese e madre italiana, ebbe un’infanzia a dir poco avventurosa durante la quale sfuggì addirittura per miracolo alla morte per mano di una bambinaia pazza che uccise quattro dei molti fratelli di Maria. Pur di famiglia protestante, venne da subito indirizzata a studi cattolici presso il monastero della Visitazione, dove si notarono immediatamente le sue doti nello studio della musica e della pittura alla quale, in particolare, si appassionò frequentando lo studio di Johann Zoffany, che in quel periodo si trovava a Firenze.

La passione per la pittura costrinse il padre di Maria a lasciarla andare giovanissima in viaggio a Roma; non era più sufficiente per lei essere una semplice copista agli Uffizi, aveva necessità di confrontarsi con l’Antico e con i nuovi fermenti della pittura neoclassica romana. Qui si fermò più di due anni durante i quali conobbe e frequentò Anton-Raphael Mengs e Pompeo Batoni, Henry Fuseli e Joseph Wright of Derby, tutti come lei inevitabilmente attratti da Roma.

Una volta tornata a Firenze, dopo la morte del padre seguì la madre a Londra dove sposò, o fu costretta a sposare, il pittore Richard Cosway, di ben vent’anni più anziano di lei; si narra che a convincere la riluttante Maria contribuì anche Angelika Kauffmann, che la ospitò insieme alla madre nei primi tempi del loro soggiorno londinese.

È qui, nella capitale inglese, che inizia la seconda vita di Maria, destinata a imporsi quasi subito all’attenzione di tutti poiché i suoi modi, così estranei alle consuetudini della società inglese, affascinarono immediatamente tanto quanto i suoi primi dipinti; fu così che il marito, forse geloso del successo della moglie o preoccupato dai pregiudizi sociali e dalla malintesa reputazione che si poteva attribuire a una pittrice, cercò di convincerla a smettere di dipingere.

Fu allora che Maria incrociò le braccia? Fu questa la ragione del suo sguardo di sfida? In qualunque modo stessero davvero le cose, Maria non si arrese e, forse con l’aiuto del marito stesso, espose i suoi dipinti alla Royal Academy of Arts: la sua fama si diffuse soprattutto in occasione dell’esposizione del ritratto che fece alla Duchessa del Devonshire nei panni del personaggio di Cynthia, la dea della Luna nel poema di Edmund Spenser The Faerie Queene.

La splendida residenza di Shomberg House in Pall Mall, dove la coppia si trasferì a partire dal 1784, divenne il centro, o almeno uno dei centri, della mondanità artistica londinese; ospitò concerti alla moda, rappresentazioni teatrali, artisti e componenti della famiglia reale in un susseguirsi di successi che fece guadagnare a Maria il soprannome di «dea di Pall Mall».

Quel soprannome però non le portò bene perché, si sa, l’invidia degli dei è quanto di peggio una creatura umana possa suscitare.

Viaggiatrice instancabile come moltissime donne dell’élite intellettuale internazionale alla fine dell’Ancien Régime, Maria viaggiò in lungo e in largo per l’Europa, conobbe intellettuali, politici e artisti; nel corso di un soggiorno a Parigi, mentre il suo matrimonio con Richard Cosway stava lentamente dissolvendosi, incontrò Thomas Jefferson, futuro terzo Presidente degli Stati Uniti, con cui ebbe una lunga e romantica relazione, forse d’amore o solo d’affetto, che le caratterizzò il resto della vita tanto che, si racconta, i due tennero sempre con loro l’uno l’immagine dell’altra. Per chi vuole avere un’idea più precisa di Maria in quei giorni la può vedere nel film di James Ivory, Jefferson in Paris, perfettamente interpretata da Greta Scacchi. Sempre a Parigi conobbe Napoleone mentre copiava il famoso dipinto di Jacques-Louis David (anche quest’ultimo amico della pittrice) Napoleone che attraversa le Alpi.

Il matrimonio con Cosway finì poco dopo la morte della loro unica figlia, e in questo momento la vita di Maria cambiò nuovamente e, questa volta, in modo radicale.
La sua esistenza è infatti legata non solo all’attività di pittrice, ma probabilmente ancor di più a quella di educatrice. Bisogna sottolineare che il periodo storico in cui visse Maria Hadfield Cosway, la seconda metà del Settecento, è un momento di relativa tranquillità per l’Europa che – salvo alcune eccezioni – fu abbastanza lungo e permise un interesse dei governanti per le riforme interne e una maggiore attenzione ai miglioramenti sociali e, fra questi, un primo forte incoraggiamento agli studi e alle attività pedagogiche.
Nel 1803 Maria fondò a Lione il suo primo collegio femminile a cui fece seguito, nel 1812, quello di Lodi, città dove si era trasferita a vivere per essere più vicina alla sorella dopo la morte della propria figlia qualche anno prima.

Le sue convinzioni pedagogiche, rifacendosi alle teorie di Jean-Jacques Rousseau, erano improntate a escludere imposizioni e metodi troppo autoritari e, anzi, erano indirizzate a cercare di sfruttare al meglio le disposizioni naturali e i talenti delle giovani ragazze.

Con l’aiuto di alcune maestre che l’avevano seguita dalla Francia in Italia e il sostegno di benefattori come Francesco Melzi d’Eril ristrutturò un vecchio convento che divenne il nucleo centrale della sua nuova attività.

Lodi divenne la seconda patria di questa donna che aveva attraversato in modo ormai dimenticato ma non certo marginale i principali cambiamenti dell’Europa dei Lumi fra arte, vita mondana e rivoluzioni sociali, in un tragitto personale che la riportò in Italia dove morì nella città lombarda a settantanove anni.

E proprio a Lodi, fino al 27 novembre, la Fondazione che porta il suo nome le ha dedicato una mostra per approfondirne la vita così ricca di eventi, la figura ancora tutta da delineare e i rapporti intricati e affascinanti con il suo tempo. Oltre alla mostra, ottimamente curata da Monja Faraoni e Laura Facchin, in collaborazione con Massimiliano Ferrario e Maria Cristina Loi (quest’ultima per la Sezione americana), va ricordato il bellissimo catalogo, che si aggiunge all’altra pubblicazione disponibile in italiano, Maria e Richard Cosway (a cura di Tino Gipponi, ediz. Umberto Allemandi, 1998). Oltre a un consistente testo scientifico ricco di riferimenti biografici e soprattutto bibliografici, il catalogo può anche essere letto quasi come una sorta di romanzo che ruota intorno all’affascinante figura di questa dimenticata Grande Dame e al suo personale Grand Tour.