Riforme delle istituzioni, dei meccanismi elettorali, dei regolamenti parlamentari, della stessa Costituzione. Sembravano una priorità assoluta, ma oggi – ha scritto domenica sul Corriere della Sera Michele Ainis – “giacciono sepolte in una bara”.

Giorni fa ho partecipato a una iniziativa di diverse associazioni della sinistra che criticano la linea di Renzi fino a chiedersi se queste riforme avviate non siano piuttosto una “restaurazione”, una deriva centralistica, se non autoritaria. Nel dibattito non sono mancate evocazioni del ventennio mussoliniano. C’erano anche parlamentari del Pd come Vannino Chiti e Stefano Fassina, che respingono le allusioni al fascismo, ma ritengono di dover agire per cambiare in modo consistente le ipotesi finora affacciate (per esempio reintroducendo l’elezione diretta in Senato). Un giurista come Luigi Ferrajoli insiste sulla necessità di introdurre per legge statuti democratici per i partiti, che ne favoriscano il legame con la realtà sociale, oggi smarrito.

Tuttavia in questo tipo di discussioni mi sembra non emerga con sufficiente nettezza la domanda fondamentale: ma lo stato italiano, e la sua Costituzione, hanno bisogno o no di una riforma profonda e radicale?

Non sono un costituzionalista, ma avendo lavorato negli ultimi 15 anni a stretto contatto con l’amministrazione di una città italiana importante (Genova) e di una regione piccola (la Liguria) ma ricca di funzioni strategiche nazionali (porti, industrie, turismo ecc.) rispondo senza esitazione: sì, ce n’è un gran bisogno. Chi non condivide le scelte di Renzi, quindi, dovrebbe indicare alternative più efficaci con l’obiettivo di riattivare un circuito positivo tra cittadini, eletti, amministratori, uffici pubblici ecc.

Del resto che cos’è la Costituzione? E’ la legge da cui dipendono tutte le leggi. Ma è anche il racconto della società di cui suggella il patto. Lo osservava Alessandra Bocchetti aprendo venerdì scorso a Roma un altro incontro incentrato sul fatto che la Costituzione ormai non racconta più in modo attendibile la società italiana, a cominciare da come vi sono rappresentate le donne.

Cinque donne hanno affrontato altrettante questioni cruciali: l’uguaglianza e la differenza (Luisa Muraro), il nome della madre (Giulia Buongiorno), la famiglia “naturale” (Michela Marzano), il lavoro (Lea Melandri), le pari opportunità (Marilisa D’Amico). Ne ha parlato brevemente il Sole 24 ore.

Mi limito a citare il senso del primo intervento di Luisa Muraro, sull’articolo 3, dove l’uguaglianza affermata “senza distinzione di sesso” rimuove la differenza sessuale non vedendone la ricchezza costitutiva delle relazioni tra cittadini e cittadine, che non sono individui neutri (ma assimilati dalla cultura politica e giuridica prevalsa finora al corpo maschile).

In realtà siamo di fronte a una crisi verticale della democrazia rappresentativa, e non solo in Italia.

Parlare di riforme costituzionali quindi non può prescindere da un esame critico delle culture politiche, delle nuove soggettività di cittadini e cittadine, del modo di produrre e di riprodurre, della dimensione globale, o quantomeno europea, in cui viviamo.

Una nuova occasione di confronto è prevista sabato 15 novembre alla Casa delle donne di Roma, promossa da due riviste femministe – Via Dogana e Leggendaria – sul rapporto tra l’Europa, la cura e la lezione “costituente” di Simone Weil.