L’Umanesimo italiano è stato letto, da Benedetto Croce e Francesco De Sanctis, ma anche da Burckhardt, come un’esperienza circoscritta in ambito artistico-letterario. Mentre la filosofia primo-novecentesca, da Giovanni Gentile e Ugo Spirito, a Erminio Troilo, fino a Cassirer, lo ha sistematicamente ridotto a praefatio di successivi sistemi filosofici: idealistici, positivistici o neokantiani. In ogni caso, dunque, si sarebbe trattato di una pagina «vuota» di teoria propria, «senza filosofia». Contro questa incomprensione reagisce adesso Massimo Cacciari con La Mente inquieta. Saggio sull’umanesimo (pp.116, euro 18), dato alle stampe per la casa editrice Einaudi.

INCOLMABILE è allora la distanza con quella grande operazione teorica che, in area tedesca, costrinse i caratteri dell’aurora moderna dentro alla paideia neoclassica: una grande e impotente reazione con la quale, da August Böckh alla scuola di Wilamowitz, l’universo della Kultur europea tentò di forgiare armi per difendersi dall’incedere impetuoso della civilisation machiniste: non è forse così che vanno letti i Goethe e Schiller, von Humboldt e Jaeger, come in fondo anche la loro nemesi umana, troppo umana, segnata dagli scritti di Friedrich Nietzsche? Qui siamo oltre. Il volume eredita in qualche misura dalla risposta che Eugenio Garin – con Rinascite e Rivoluzioni e con Lo Zodiaco della vita – diede a Martin Heidegger: si tratta qui di Umanesimo, si badi bene, e non di Humanismus.

Domandiamoci dunque: cosa comporta il «pensare l’umanesimo more filosofico»? Certo riscoprirne l’originalità e la relativa autonomia, ma più ancora, secondo Cacciari, esaltare la natura critica «di un pensiero che si fa cosciente della fine di un Ordine e del compito di definirne un altro, drammaticamente oscillante tra memoria e oscuri presagi, crudo scetticismo e audaci idee di riforma». In tal senso il saggio di Cacciari va letto assieme a due pubblicazioni recenti su Machiavelli, di Asor Rosa e di Ciliberto; e a un libro più lontano, la Ricerca del Rinascimento pubblicata negli anni Novanta da Manfredo Tafuri. Si formerebbe così una costellazione che riapre la partita dell’umanesimo tragico: nessun antropocentrismo, alcun positivismo, nessuna banale passione antiquaria, nessuna religione della tecnica nei vari Valla, Alberti, Pico, Ficino. Piuttosto una ragione non dogmatica, costantemente occupata a ragionare sui propri limiti, nel confronto con i grandi esempi della storia: in questo senso vanno colti, secondo Cacciari, il nesso tra «filo-logia e filo-sofia», e il «pensare per immagini» che costituiscono la doppia chiave di volta del libro.

«Qui sta davvero – scrive Cacciari – l’acquisizione filosofica fondamentale dell’Umanesimo: non abbiamo a che fare con dati ai quali adattare convenzioni linguistiche, come un abito a un corpo. Abbiamo a che fare con fatti che sono in quanto da noi espressi, interpretati, agiti. Si tratta della cosa che in greco si chiama pragma». La traiettoria proposta da Cacciari inizia con Dante e Petrarca e poi si biforca: da una parte c’è il rinascimento materialista dei Valla, di Alberti e di Machiavelli. Dall’altra la grande linea neoplatonica di Pico, Pomponazzi e Ficino. A tenere in discorde amicizia queste due linee, secondo Cacciari, è la drammatica dell’epoca, la ricerca della pace, stretta tuttavia tra altissime capacità culturali e un catastrofico incedere del tempo storico. Perciò dice Cacciari, l’Umanesimo è tragico e critico insieme.

VAL LA PENA tuttavia di chiedersi se questa lettura possa essere sufficiente o se la soglia tragica non si configuri piuttosto, persino nelle pagine più scure del Teogenio o nelle più disilluse tra le lettere del Machiavelli, come un ostacolo da superare, una frontiera da violare. In mezzo: tra le belle proporzioni delle tecniche moderne e le istanze concrete, spesso triviali, febbrilmente agitate, inferme, dell’umana natura non v’è solo l’aporia del tragico. Ma anche il riso, ironico, materialista. C’è Epicuro, in questo umanesimo, e Luciano, e Lucrezio. L’uomo muove sempre alla «ricerca del proprio piacere», produce «voluptas», «amore per il logos» : può essere «asino» o armare di spada le proprie idee e costruire repubbliche. Perciò: «Compito di una paideia filosofica consisterà nell’insegnare come il nostro naturale conatus alla vita felice possa venire soddisfatto». Qui l’Umanesimo pare davvero più forte della Krisis del suo interprete. La ricerca può dunque ricominciare.