Da quando esiste il web il fenomeno dell’archiviazione è diventato uno dei grandi problemi della cultura digitale. Innanzitutto in questo senso: che il processo di inarrestabile «datificazione» del mondo non smette di rafforzare la pretesa di chiudersi su se stesso per sostituirsi al «mondo vero». Ne è spettacolare testimonianza il fatto che i sistemi di intelligenza artificiale capaci di generare testi e immagini si nutrono esclusivamente di dati archiviati e nulla sanno del mondo vero – come i volumi che si richiamano l’un l’altro nell’immensa biblioteca autoreferenziale di cui parlava Borges.

C’è una differenza, tuttavia, tra il raccogliere dati e l’archiviarli, e va cercata in primo luogo nei diversi principi, nelle diverse «archai», delle rispettive pratiche. A differenza del semplice collettore di dati, infatti, chi costruisce un archivio non lo fa solo per conservare delle memorie, lo fa anche, e forse soprattutto, per condividere una testimonianza dello scarto che deve sussistere tra il desiderio che il dato arrivi a sostituirsi al mondo (o almeno al mondo dell’archivista) e la consapevolezza che se ciò accadesse l’ordine del dato risucchierebbe come un buco nero l’ordine del vissuto imbalsamandolo come una mummia.

Ci sono dunque due caratteristiche dell’archivio che vanno accuratamente evidenziate. La prima è che gli archivi non sono (solo) dispositivi di registrazione e di stoccaggio di dati perché, piuttosto, occorre sottoporli a una «costruzione» che in un modo o nell’altro li preservi dal rischio, congenito, di mummificare il mondo vero. Walter Benjamin usava questa parola – costruzione – per differenziare il lavoro dello storico materialista da quello dello «storicista», docile strumento di una logica lineare e cumulativa che si sottomette servilmente all’ideologia «continuista» che fa comodo agli oppressori. La seconda è che gli archivi bisogna «condividerli», nel senso che il loro uso può e deve costituirsi, a sua volta, come il conferimento di una nuova «arché» – un modo, per citare ancora Benjamin, di «spazzolarli controplelo» e di farli lavorare piuttosto per il cambiamento che non per la conservazione.
Costanza Quatriglio, una delle nostre registe più creative nella pratica del ri-uso di documenti, ha ereditato un archivio personale del tutto fuori dal comune per mole e qualità, quello del padre Giuseppe – intellettuale di rango, poliedrico inviato speciale del Giornale di Sicilia e incomparabile archivista di libri e manoscritti, bobine e audiocassette, disegni e fotografie – e, nel decidere di trasmetterlo alla Regione siciliana, ha anche stabilito di raccontare in un film, Il cassetto segreto, l’esplorazione degli innumerevoli reperti multimediali accumulati dal padre nella sua «casa-monade» di Palermo in un ordine solo a lui noto (l’ordine dell’ingiunzione «Rimetti a posto!» e del cartello «Si prega di non toccare»), e il loro trasferimento alla Biblioteca regionale di Palermo, destinata a custodirli secondo un ordine del tutto diverso: quello trasparente e amichevole del «metterli in comune» e del favorirne la consultazione. Ma che cosa è successo tra la prima e la seconda archiviazione?

Il film di Costanza Quatriglio è un tentativo di dare forma allo spazio-tempo intermedio tra due «archai», tra due criteri di ordinamento archiviale diversi e persino opposti: da un lato la pulsione dell’archivio a sovrapporsi per intero alle cose e agli eventi di cui costituisce una testimonianza; dall’altro, la resistenza che le cose e gli eventi non smettono di opporre a quel movimento di sequestro dall’interno del suo prodursi. Senza trascurare la circostanza che la stessa regista è parte di quell’archivio – e di quel tentativo di sequestro – com’è denunciato dal fatto che il film procede secondo un ordine ostentatamente capovolto (aperto da un epilogo, chiuso da un prologo e composto di cinque capitoli che si susseguono dall’ultimo al primo) e che lei compare in entrambe le soglie del testo secondo due ruoli di cui lo spettatore è invitato a cogliere il carattere complementare. Nell’epilogo (posto all’inizio), la regista è la scopritrice del «cassetto segreto», quella che ha messo le mani nell’archivio del padre (siamo nel 2010, e l’uomo ha 88 anni) e l’ha filmato mentre legge una poesia di cui vediamo in primo piano il testo manoscritto; nel prologo, per contro, proprio alla fine del film, la vediamo ricomparire nelle riprese che il padre le ha dedicato poche ore dopo la sua nascita. Almeno uno dei tanti fili conduttori dell’archivio, dunque, aveva già inoculato nel suo dispositivo imbalsamante il più potente degli anticorpi: quello che, riorganizzandolo selettivamente nella fase del trasferimento dalla «casa-monade» a uno spazio comunitario, si sarebbe fatto interprete della vita allo stato nascente che vi era da sempre contenuta e di tutta e l’energia che ancora vi circolava.

La domanda cui il film prova a dare risposta, allora, è la seguente: come si costruisce un archivio e come lo si riusa, posto che per un tale riuso non ci sono norme pregresse ma bisogna inventarsele ogni volta di nuovo? Ovvero, qual è il tempo proprio – anzi il «tempo debito» come suona il titolo del primo capitolo del film, quello collocato alla fine – di una simile costruzione?

Il tempo della ri-costruzione archiviale non può che essere il tempo-ora – la Jetztzeit di cui parlava Benjamin –, l’urgenza della contemporaneità, il suo senso e il suo ri-orientamento emersi di colpo grazie all’attualizzazione di alcune immagini del passato.

Ma attenzione, perché nulla è più distante dal tempo-ora che il «presente» inteso nella sua declinazione ordinaria. L’attualizzazione dell’archivio dev’essere, piuttosto, costruita con estrema cura, in modo tale che la sua con-temporaneità venga messa nelle condizioni di poter emergere da un indizio imprevisto che ne rompa l’apparente continuità e da quel momento in poi si estenda in molti modi sull’intero corpo testuale.

Il cassetto segreto è ricco di queste cesure che, in corso d’opera, suggeriscono allo spettatore nuove possibili riorganizzazioni dell’archivio e, insieme, ulteriori risposte alla domanda sulla costruzione retrograda del film che da un certo momento in poi comincia a far apparire i requisiti dell’andirivieni e della reversibilità.

Costanza Quatriglio

Si direbbe, in realtà, che questa dinamica plurale del testo metta a fuoco in modo esemplare un privilegio dei film di documenti non estendibile ai film di fiction: la possibilità di sperimentare via via numerosi criteri di coerenza testuale senza che, per questo, l’uno falsifichi l’altro. Ne toccherò uno solo, per concludere.

Nel Cassetto segreto la presenza dell’autrice passa per numerosi canali. È una voce narrante che, all’occorrenza, viene prestata al padre nella lettura dei suoi testi, ma è anche un voce in presa diretta, modulata da accenti diversi, come ad esempio l’intonazione siciliana che si fa sentire nei dialoghi con chi si sta occupando del trasloco.

È inoltre una presenza visiva, anche in questo caso provvista di variazioni significative: la bambina, l’adolescente, la donna che è oggi, fino – nel prologo posto alla fine – la neonata che della voce sa praticare solo la forma inarticolata del pianto. Via via che il film procede questa presenza si fa più frequente e si carica di funzioni di raccordo più marcate. La regista dialoga con gli archivisti e i bibliotecari che stanno preparando il prelievo dei materiali del fondo; inventa con loro i criteri adatti per classificarli a seconda della loro natura (libri, manoscritti, fotografie, diapositive, filmati di diverso formato, registrazioni sonore, videocassette); esplora il grande corpus dei documenti per selezionare quelli che potrebbero confluire nel film; decide forma e struttura delle riprese, spesso ri-mediate da altri dispositivi, insieme alla montatrice Letizia Caudullo; rimette in scena, o simula di farlo, alcune sequenze che a suo giudizio non erano venute bene. Nel corso di una di queste esplorazioni succede che una videocassetta risulti danneggiata. La regista insiste ma senza risultati: lo schermo del televisore è interamente occupato dal tipico effetto-neve delle vecchie cassette smagnetizzate. Un aggancio sonoro – il canto di un gallo che arriva dalla porta-finestra aperta – fa emergere, a questo punto, una voce del tutto decontestualizzata e, qualche secondo dopo, un video in cui Giuseppe Quatriglio intervista Ignazio Buttitta iniziando col chiedergli che cosa pensa un poeta giunto a 80 anni (siamo dunque nel 1979).

Ma non si tratta di immagini riprodotte dallo schermo del televisore, che resta muto e illeggibile. Si direbbe, piuttosto, che sia stato il film ad averle evocate in prima persona, come se una parte dell’archivio fosse già transitata per virtù propria in quell’altra forma di archiviazione (quella dinamica e dotata di molti punti di innesco per i suoi diversi criteri di coerenza) che è il film che stiamo vedendo e che adesso si attribuisce l’autorità esorbitante di intervenire liberamente in una fase della sua costruzione. Da questo momento in poi, per alcuni minuti, lo schermo disturbato del televisore su cui la regista continua inutilmente ad armeggiare, si alterna con le immagini dell’intervista a Ignazio Buttitta, dapprima inquadrato insieme al suo interlocutore e poi, senza soluzione di continuità, ripreso per le strade del suo quartiere palermitano dove si ferma a discorrere amabilmente con molti passanti mentre la sua voce fuori campo continua a rispondere alla prima domanda dell’intervista.

Certo, dice Buttitta, a questa età ci si prepara alla morte, ma è anche vero, aggiunge, che se «ogni uomo un segnale lo lascia», il poeta è tenuto a fare qualcosa si più: a «dare una luce», a «indicare una strada» che accenni a un possibile «cambiamento».
«Non sono sicura di ricordare la giornata trascorsa insieme al poeta», commenta a questo punto la voce fuori campo della regista, proprio mentre la stiamo vedendo, bambina e sorridente, accanto al vecchio poeta. Aver aperto una spazio di gioco tra le nostre memorie interiorizzate e quelle delegate a un supporto esterno (tutti già ne abbiamo e ne avremo sempre di più) è uno dei grandi fili conduttori del film di Costanza Quatriglio. La sua memoria non ha trattenuto quella giornata con Ignazio Buttitta, ma il film l’ha estratta dall’archivio e gliel’ha rimessa a disposizione per un riuso possibile.