Due vite parallele che non divennero mai sentiero comune, due romagnoli figli di piccoli proprietari terrieri ed educati a un cattolicesimo semplice ed evangelico, due studenti dell’università di Bologna accomunati da una carriera tutt’altro che esemplare cresciuta intorno alla cattedra di Carducci da cui ereditarono le passioni retoriche e ideali, nonché la scelta di aderire alla massoneria. Soprattutto due socialisti internazionalisti, membri non di un partito gerarchico e dottrinario ma di una galassia pluralistica in cui si incrociarono, fecondandosi, idee diverse. Questo furono, nella ricostruzione di Elisabetta Graziosi, Andrea Costa e Giovanni Pascoli Un’amicizia socialista (Viella «La Storia. Temi», pp. 512, euro 42,00).

Figli di quella che Roberto Balzani ha chiamato la generazione dei nati troppo tardi, ovvero quella gioventù entusiasta e preparata al sacrificio che non aveva potuto partecipare al Risorgimento e quindi con tanto maggior passione abbracciava ora la causa del Socialismo, Andrea e Zvanì affondavano le radici del loro amore per la causa dei diseredati in un terreno intriso di influenze letterarie: «Una vita nova» – così descriveva Andrea Costa la sua conversione al socialismo – «Incipit vita nova, come Dante: non per amore di Beatrice ma per amore del genere umano e pel perfezionamento di sé e degli altri (…) Rivivere – e migliori».

Questa passione politica, a cui diede voce una retorica sospesa tra il letterario e il religioso, fu la stessa che bruciò anche in Pascoli, almeno nel periodo «fra il nido distrutto e il nido rifatto», fra la tragica morte del padre assassinato la notte di San Lorenzo del 1867 (e seguito nella tomba nel giro di un decennio dalla madre, dai fratelli e da una sorella) e la ricomposizione della famiglia con le sorelle Ida e Mariù e poi solo con quest’ultima. Di questa preistoria del Pascoli che Croce chiamò «amoroso e ribelle» sappiamo pochissimo: alla proverbiale riservatezza del poeta si aggiunse la selezione dei documenti operata da Mariù, che parlò delle idee socialiste del fratello solo per attenuarle, senza contare che lasciare dietro di sé tracce documentarie è l’ultima delle preoccupazioni di chi professa idee sovversive per la società in cui vive.

Tutto quello che sappiamo, unito a diverse nuove trouvailles e a coraggiose ipotesi per future ricerche, si trova ora squadernato nel volume di Elisabetta Graziosi. Un libro paradossalmente innovativo nel suo proposito del tutto inattuale di spostare la sorgente della poesia pascoliana dagli affetti irrisolti e inquietanti del nido familiare verso una fede socialista che prese forme diverse, al limite dell’eresia, ma non fu mai veramente abiurata.

Come si diceva, Pascoli non fu uno studente modello: si ha quasi l’impressione che frequentasse l’Alma Mater più per respirare l’atmosfera politicamente carica di Bologna che per seguire le lezioni (escluse, naturalmente, quelle di Carducci). Sono gli anni in cui Bakunin e Cafiero organizzano poco fuori città quell’insurrezione anarchica al Pontelungo che entrerà nell’immaginario letterario grazie alla penna (ironica perché ostile) di Riccardo Bacchelli. L’insurrezione fallì e il giovane Andrea Costa – nonostante la testimonianza in suo favore di Carducci, che lodò il generoso slancio utopico del suo scolaro – finì nel carcere di San Giovanni in Monte.

Uscito di galera, Costa si diede di nuovo alla propaganda sovversiva e vide al suo fianco proprio Pascoli, che si iscrisse all’Internazionale e fu attivo assieme all’amico nella redazione de «Il Martello», un foglio internazionalista stampato clandestinamente nella casa del sarto Augusto Napoleone Casalini a Porta Mascarella. Era solo una questione di tempo prima che Pascoli – già sul libro nero della questura – finisse anche lui a San Giovanni in Monte, dove fu incarcerato per comportamento sedizioso in difesa di alcuni internazionalisti ingiustamente incarcerati.

Da Lugano, Costa intervenne con energia in difesa sua e degli altri suoi compagni, «solidale con essi e malfattore com’essi». A processo Pascoli si difese invece in modo molto più morbido: «Non appartengo a nessun partito politico. Le mie idee individuali sono piuttosto socialistiche. Non appartengo a nessuna società. Le mie idee mi conducono ad appartenere a quella parte di socialisti che desiderano e tendono al miglioramento della società senza pervertimento dell’ordine».

È una risposta che in fondo ci si aspetta da un intellettuale per cui l’impegno politico convive sempre col desiderio melancolico di veder passare le cose del mondo dalla finestra di una biblioteca. Nel libro si propone però di aggiungere a questo ordine di considerazioni anche l’influenza del messaggio affidato da Costa alla lettera Ai miei amici di Romagna, dove si invitavano i socialisti a far confluire la lotta entro i quadri della legalità. Ciò in effetti può anche aiutare a spiegare perché Pascoli, dopo cento giorni di carcere, riprenda gli studi e finalmente si laurei.

Costa continuerà per qualche tempo a tenere i contatti (fingerà, ad esempio, di scrivergli lettere dalla Svizzera per depistare la polizia), ma dopo il 1882 le strade si dividono e i due ex sovversivi escono dalla vita bohemienne della clandestinità per entrare nei gangli dello Stato: uno in parlamento fino allo scranno di vicepresidente della Camera; l’altro nella rumba delle cattedre di liceo e università: Matera, Massa, Livorno, di nuovo Bologna, Messina, Pisa, fino appunto alla ricostruzione del nido a Castelvecchio nel 1895.

Tutto ciò non spezza il filo rosso della sua continua adesione al socialismo, un’adesione non esente da ripensamenti – lo si vede molto bene da come cambiano le diverse stesure del famoso scritto sul Fanciullino – e vieppiù condizionata da elementi religiosi. Lo stesso vale anche per Andrea Costa, «apostolo del Socialismo» come lo definisce la targa sulla sua casa natale a Imola. Ed effettivamente, se per Pascoli sarà sempre più la religione ad avere dei tratti socialisti o comunque umanitari, per Costa è il socialismo ad assumere man mano i tratti di una religione, non senza il rimpianto finale di non aver saputo dar vita a riti capaci di far presa sulle masse come quelli della Chiesa cattolica (il che spiega perché, nei suoi ultimi giorni, si vociferò di una sua conversione in articulo mortis).

Sia come sia, per entrambi il socialismo fu una scelta sanguigna dove la passione e l’amicizia contavano più della dottrina, una sete di giustizia che non poteva essere certo soddisfatta dal marxismo, a cui per Pascoli «è mancato l’afflato, l’impeto, le lingue di fuoco. Ha voluto essere una scuola e doveva essere una religione». In questa contrapposizione tra amore e plus-valore, tra sacrificio e lotta, tra umanità e divisione in classi, la provenienza da una Romagna dove proprietari medi e piccoli vivevano gomito a gomito con braccianti e mezzadri avrà contato non solo per l’aspetto caratteriale di cui si diceva, ma anche per la costruzione di una piattaforma politica che, in assenza di un proletariato industriale, mirò sempre alla difesa della piccola proprietà attraverso forme cooperative capaci di opporsi tanto al capitale agrario quanto a quello finanziario. Per il Pascoli poeta latino la Romagna agricola appoderata rimase sempre un mondo non lontano da quello delle Georgiche e delle Bucoliche, dove la renovatio sarebbe sorta non grazie alla nuova progenie augustea piovuta dal cielo come per Virgilio, ma dalle lotte dei lavoratori presi a cannonate da Bava Beccaris nel fosco fin del secolo morente.

Anche quando il nuovo secolo, inaugurato dall’assassinio per mano anarchica di Umberto I, lo spinse sempre più verso un irenismo a tinte umanitarie, Pascoli non dimenticò mai il compagno di lotte e prigionia: «Caro Andrea – gli scriveva ancora nel 1902 – guardando insieme col caro amico Luigi Pallestrini l’Aspromonte tutto immerso nella nebbia e nella pioggia, – l’Aspromonte –, ho pensato, non so come, a S. Giovanni in Monte e alla dolce lontana gioventù e a te, antico princeps iuventutis».

Persino il patriottismo colonialista che emerge dal controverso discorso pascoliano La grande proletaria si è mossa, pronunciato in appoggio alla guerra di Libia, è un approdo a suo modo coerente con quella realtà multiforme che fu il socialismo italiano tra Otto e Novecento. Antonio Labriola, ad esempio, già dal 1890 e con l’approvazione dello stesso Engels aveva proposto di impiantare in Eritrea un nuovo sistema di proprietà per realizzare un «esperimento di socialismo pratico», a cui sperava che un vecchio mazziniano come Crispi sarebbe stato sensibile. Non così Costa, che non si fece illusioni e fu sempre ostile al colonialismo rimanendo fedele all’insegnamento del maestro: anche quando era ormai diventato il «Vate della terza Italia», Carducci aveva infatti rifiutato di celebrare in versi le vittime di Dogali, perché «gli abissini hanno ragione di respingere noi, come noi respingevamo gli austriaci».