Cosimo de’ Medici ritratto nel suo tempo: affari, alleati, nemici
Antonio Rossellino, ritratto di Cosimo de’ Medici, 1460 ca., Berlino, Bode Museum
Alias Domenica

Cosimo de’ Medici ritratto nel suo tempo: affari, alleati, nemici

Italiani illustri Lo storico medievista Lorenzo Tanzini ha scritto per la Salerno editrice una sfaccettata biografia del «banchiere del papa» che fondò la dinastia medicea e diede ala al Rinascimento fiorentino
Pubblicato circa 2 anni faEdizione del 2 ottobre 2022

I confronti tra personaggi storici possono a volte essere accattivanti, ma sono sempre insidiosi. Nelle Storie fiorentine, scritte tra 1508 e 1509, Francesco Guicciardini propose un parallelo tra le due figure più in vista della recente storia di Firenze: Cosimo de’ Medici, il «Padre della Patria», noto in seguito come il Vecchio, e suo nipote Lorenzo. Il confronto – secondo il modello delle Vite parallele di Plutarco – imponeva un giudizio, e soppesando meriti e difetti, virtù e debolezze, per Guicciardini il verdetto era chiaro. Per quanto Lorenzo fosse più colto, Cosimo aveva messo le fondamenta politiche del regime mediceo, mentre il nipote trovò la strada spianata. Cosimo ebbe inoltre un talento negli affari che mancò a Lorenzo, e questi non reggeva il paragone neppure rispetto al mecenatismo del nonno (basti pensare a San Lorenzo o a San Marco).

Il mito del Magnifico

Il giudizio di Guicciardini era favorevole a Cosimo, eppure è stato Lorenzo ad attrarre con maggior forza generazioni di studiosi e appassionati. Il mito ambivalente del Magnifico per eccellenza – culmine del Rinascimento e tiranno che mette fine alla libertà repubblicana – ha portato di conseguenza a studiare Cosimo non in rapporto all’epoca in cui fu al centro della politica fiorentina (1434-1464), bensì come l’iniziatore di una storia portata a compimento dai suoi discendenti. Ma spiegare un personaggio con quanto accaduto dopo la sua morte, oltre a essere anacronistico, è fuorviante. Cosimo e Lorenzo vissero in epoche in cui le condizioni economiche e di potere, sia a Firenze sia nel panorama italiano, erano troppo diverse. Lo stile principesco con cui il nipote plasmò la sua figura pubblica era anzi l’opposto di quello adottato dal nonno per imporre la sua egemonia e il suo prestigio a Firenze nella prima metà del Quattrocento, quando i Medici dovevano fare i conti con altre famiglie altrettanto e più importanti di loro (gli Albizzi e gli Strozzi, i Pazzi e i Capponi).

La capacità di ritrarre Cosimo nel suo tempo, tra i suoi nemici e i suoi alleati, tra gli affari e le guerre di quegli anni, è un grande merito del libro di Lorenzo Tanzini, Cosimo de’ Medici Il banchiere statista padre del Rinascimento fiorentino (Salerno Editrice «Profili», pp. 376, € 25,00). Storico dell’economia, delle istituzioni e della cultura medievale, Tanzini era lo studioso più indicato per tenere insieme i tre settori, connessi l’uno con l’altro, in cui Cosimo lasciò il segno: la finanza, la politica interna ed estera di Firenze, i rapporti con l’arte e la cultura del tempo. Il risultato è una biografia sfaccettata e appassionante, scritta con uno stile piacevole e con invidiabile chiarezza (anche nello spiegare gli aspetti più tecnici dell’ascesa di Cosimo, come il complicato sistema elettorale allora vigente a Firenze e le sue varie riforme).

Cosimo nacque nel 1389 da Giovanni di Bicci, un uomo d’affari che quando il figlio era ancora bambino rilevò la società romana di un parente e ne spostò il centro direzionale a Firenze, gettando le basi della fortuna della famiglia. Cosimo andò a scuola d’abaco e di geometria e studiò la grammatica latina (l’esemplare delle Heroides di Ovidio su cui si esercitava è conservato alla Biblioteca Medicea Laurenziana). Nonostante la sua passione per le lettere, il giovane non si iscrisse all’università: non perché il padre non potesse pagargli gli studi, ma perché l’impresa di famiglia aveva bisogno di forze fresche.

Il giro di affari della compagnia Medici stava infatti crescendo enormemente da quando Giovanni era diventato il banchiere del papato.

Tutto era cominciato negli anni dello Scisma d’Occidente – quando il mondo cristiano era diviso tra due o tre papi in lotta tra loro – grazie agli ottimi rapporti di Giovanni di Bicci con Baldassarre Cossa, eletto col nome di Giovanni XXIII e poi deposto, ma sepolto splendidamente nel battistero di Firenze. Gli affari erano proseguiti con il nuovo papa eletto al concilio di Costanza, Martino V, che di ritorno a Roma si fermò a Firenze un anno e mezzo, tra 1419 e 1420, per dare alle finanze pontificie un nuovo assetto con al centro la filiale romana del Banco Medici. Ma il culmine, anche simbolico, della vicinanza tra Cosimo e il papato si ebbe con Eugenio IV. Fuggito da Roma nel 1434, Eugenio risiedette a Firenze, salvo qualche intervallo, per quasi un decennio. In quegli anni la città toscana fu uno dei maggiori centri del mondo cristiano: nel 1436, dopo che Brunelleschi aveva completato la cupola (allora la più grande del mondo), il papa consacrò la cattedrale di Santa Maria del Fiore; nel 1439 fu spostato a Firenze il concilio indetto a Ferrara per l’unione delle chiese orientali con quella latina.

L’esilio a Venezia

Negli anni di Eugenio IV la tesoreria della Curia era in mano ai Medici, e Cosimo era il punto di riferimento di principi e privati che intendevano trattare col papa. Ma l’espandersi del Banco Medici (una sorta di holding con sedi separate a Ginevra, Bruges, Avignone, Londra) e i suoi rapporti col papato erano intrecciati alla politica fiorentina. Nel 1434 Eugenio IV fu accolto a Firenze non da Cosimo, ma dai suoi avversari capeggiati da Rinaldo degli Albizzi. Cosimo si trovava allora in esilio a Venezia, dopo che il fallimento della guerra di conquista contro Lucca aveva portato il vecchio ceto dirigente fiorentino a trasformare la frustrazione in aggressività nei confronti della parte medicea. Con la prudenza e la rete di relazioni su cui poteva contare, Cosimo riuscì a evitare che il colpo di mano portasse alla sua eliminazione fisica. Dopo un anno lontano da Firenze, un nuovo governo a lui favorevole lo richiamò in città. Si trattò di una leggerezza, da parte dei suoi nemici, che Cosimo non intendeva ripetere. Grazie a un attento controllo della politica cittadina, e in particolare dell’elezione dei magistrati, egli rese l’esilio dei suoi avversari permanente. Intanto, in città, il «partito» mediceo si consolidava sia tra il popolo sia tra l’élite, come mostra la collaborazione e la stima reciproca tra Cosimo e un uomo di spicco del vecchio regime, Neri di Gino Capponi.

Anni di fermento e novità

La politica interna di una città come Firenze era allora legata al continuo evolversi del panorama italiano, e Tanzini accompagna il lettore con mano sicura tra la rete di alleanze che legava gli stati della penisola, e che vide Cosimo allentare i rapporti con Venezia per stringerli, sempre più forti, con Francesco Sforza e con Milano. Fino a pochi anni prima, il Ducato di Milano era per Firenze il nemico per eccellenza, la tirannide ducale che minacciava le libertà repubblicane. Ma per la cultura fiorentina erano anni di fermento e di novità, e i Medici furono protagonisti anche da questo punto di vista. Cosimo investì grandi risorse in imprese assistenziali e in fondazioni religiose, nell’arte e nei libri – grazie a lui la collezione di Niccolò Niccoli divenne una delle prime biblioteche pubbliche, a San Marco. Coltivò inoltre importanti amicizie tra gli artisti, come Donatello e Michelozzo, e tra gli intellettuali dell’epoca, da Poggio Bracciolini ad Ambrogio Traversari, anche se non tutti gli umanisti erano al suo fianco (Francesco Filelfo, ad esempio, scrisse pagine durissime contro l’uso politico che Cosimo faceva della ricchezza).

Pur avendo una grande passione per la cultura, soprattutto latina, Cosimo non era un letterato in prima persona, come il nipote Lorenzo. La sua personale visione del mondo si coglie però almeno in parte grazie ai numerosi detti a lui attribuiti. In una città che apprezzava particolarmente la capacità di improvvisare sentenze ironiche o taglienti, Cosimo eccelleva nel coniare battute come quella sullo Stato che «non si governa coi paternostri». Una provocazione memorabile, cui reagirono anni dopo, da prospettive opposte, Girolamo Savonarola e Niccolò Machiavelli.

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