Jean René Bilongo viene dal Camerun, Africa nera, e conosce bene lo sfruttamento del lavoro migrante nelle campagne del centro-sud per un banalissimo motivo: ci ha lavorato per alcuni anni, «come bracciante e come mandriano per 700 mila lire al mese», a Castelvolturno, nel casertano. Per questo non fatica a credere all’incredibile vicenda – raccontata ieri su queste pagine – dei sikh dell’agro pontino dopati con anfetamine e oppio per non sentire la fatica e il dolore. Bilogno ha cominciato il suo impegno politico-sindacale proprio nella «little Africa» della Terra di lavoro, a Villa Literno nell’associazione intitolata a Jerry Essan Maslo, l’immigrato sudafricano ucciso nel 1989 in un tentativo di rapina finito male. Da allora non si è mai fermato: ha fatto il sindacalista di strada per agganciare gli schiavi delle campagne, «poi abbiamo aperto la Casa dei diritti» intitolata ancora una volta a Masslo. Oggi è responsabile immigrazione della Flai-Cgil, «un approdo naturale per chi fa questo tipo di attività in provincia di Caserta».
Bilongo, ha letto i racconti dei sikh di Sabaudia? Lo sfruttamento, i ritmi insopportabili, il ricorso alle droghe, fornite da caporali e a volte direttamente dai datori di lavoro.
Conosco molto bene la situazione dei lavoratori nelle campagne del basso Lazio. Lì abbiamo organizzato, nel 2010, il primo sciopero dei sikh d’Italia. C’è bisogno di un percorso da fare insieme alle autorità indiane. Dobbiamo lavorare per questo.
Lei, oltre che il lavoratore nei campi, ha fatto anche il sindacalista di strada. Quali sono le storie che si incontrano svolgendo questo tipo di attività?
L’attività di strada è un’opzione strategica per noi della Flai-Cgil. Non avremmo altrimenti altro modo per rintracciare questo tipo di lavoratori. Devi andare nei luoghi in cui essi si riuniscono, dove attendono i caporali, per far sapere loro che possono contare su di te.
Come si fa ad avvicinarli?
Ci vuole molto tatto. Non bisogna fare nessuna irruzione, si va in punta di piedi e bisogna pian piano conquistare la loro fiducia. In genere, se si riesce a risolvere un problema pratico a qualcuno poi finisce che anche gli altri ti si avvicinano. Noi andiamo oltre la nostra vocazione sindacale: facciamo doposcuola ai bambini, se qualcuno ha bisogno di una visita in ospedale lo accompagniamo e cose del genere. Abbiamo il dovere di tutelare queste persone. Il fatto di avere nelle strutture territoriali molti sindacalisti indiani, rumeni, albanesi, subsahariani ci aiuta, ovviamente, a instaurare un rapporto di fiducia con questi lavoratori.
I luoghi dello sfruttamento aumentano sempre più. Da Rosarno alla Capitanata e al casertano. Ora l’agro pontino. Nel centro-sud si lavora ormai in condizioni da terzo mondo quasi ovunque, in agricoltura.
Non c’è solo il sud. Certo, in alcune aree del Paese caporalato e sfruttamento sono plateali, e le maggiori difficoltà le incontriamo in territori problematici. Al nord, però, spesso abbiamo istituzioni e forze politiche che tendono a negare che esista un problema, però si ascoltano le stesse storie e accadono cose analoghe. Lo sfruttamento del lavoro migrante non è una prerogativa meridionale. Esso c’è dappertutto, anche se con dimensioni diverse, naturalmente.
Avete mai avuto problemi con i datori di lavoro o con la criminalità organizzata?
Spesso. Accade che possano accadere degli episodi anche violenti. Io stesso ho vissuto di persona, in Puglia, un’aggressione da parte di un imprenditore perché eravamo entrati nelle sue terre. Spesso ci accade di dover affrontare casi di licenziamenti o di mancata erogazione del salario. In questi casi si chiama il datore di lavoro e può succedere che questi arrivi alla Camera del lavoro e cominci a inveire e minacciare. In questi casi è determinante il peso dell’organizzazione: quando capiscono di avere a che fare con una struttura forte, alla fine un po’ tutti si calmano e sono costretti a cedere.
Questo accade quando ci si trova di fronte a lavoratori precari ma, almeno formalmente, in regola dal punto di vista contrattuale. Poi c’è il sommerso.
Ce n’è tanto. È una questione storica, in Italia, e riguarda non solo gli immigrati. Unita allo sfruttamento, diventa una miscela esplosiva. È questa condizione che genera la schiavitù. Ormai accade di tutto. Il fenomeno più recente sono gli schiavi importati direttamente dalla Romania. Lavorano in Italia con contratti di lavoro rumeno, grazie a finti distacchi di lavoro. Tanto sono comunitari e possono liberamente circolare in Europa.
Insomma, orari e condizioni di lavoro italiani e paghe rumene. Ha un’idea di come si potrebbe combattere con efficacia queste forme di sfruttamento?
Noi stiamo lavorando su tre fronti. Il primo è una riforma del mercato del lavoro in agricoltura. La questione principale è riuscire a far incontrare legalmente domanda e offerta. Il secondo, legato a quest’ultimo obiettivo, è la creazione di un collocamento pubblico, e su questo sono d’accordo anche Cisl e Uil. Il terzo è la cooperazione con i paesi d’origine degli immigrati. Abbiamo già aperto uno sportello in Tunisia e altri stiamo tentando di crearne in Romania e Bosnia.