Ivano è un olivicoltore salentino. Lo è da tutta la vita, come lo era suo padre, suo nonno, intere generazioni di coltivatori di ulivi che si sono tramandati tecniche e saperi. Come la «slupatura», una potatura straordinaria per impedire che le piante marciscano. Ha sempre trattato le piante con i metodi tradizionali, anche quando il disseccamento ha colpito alcune delle sue. Assieme al «Popolo degli ulivi» porta avanti la sua battaglia contro i metodi aggressivi spinti come gli unici possibili per contrastare il fenomeno del disseccamento. I suoi ulivi si trovano sull’asse Noto-Gallipoli, una zona infetta: ciononostante, su un’ottantina di piante sono morte solamente poche unità. Ivano come contributo all’emergenza ha voluto mettere le sue conoscenze empiriche alla prova della scienza: così ha partecipato al Silecc «Sistemi di lotta ecocompatibili contro il CoDiRO», un progetto di ricerca e sperimentazione finanziato dalla regione Puglia sulla «prevenzione e il contenimento del complesso del disseccamento rapido dell’olivo», e sviluppato in collaborazione con un istituto Cnr di Perugia.

IL PROGETTO È INIZIATO NEL 2016, quando Ivano e i ricercatori hanno individuato un appezzamento di 16 ettari, dentro una zona molto compromessa nel comune di Galatone, dove il disseccamento era iniziato dal 2014 compromettendo la vegetazione fino all’80%. In questa azienda sono state sottoposte a diverse prove 84 piante. Sulle piante si è agito con un occhio al passato e un piede nel presente. Innanzitutto una buona potatura, utilizzando tecniche antiche che negli ultimi decenni si sono perse. Una volta potato, le ferite sono state coperte e disinfettate, per non esporre la pianta all’attacco di funghi, batteri, insetti. Dopo la potatura sono stati disinfettati anche il tronco e le branche principali con solfato di ferro. Poiché l’ambiente, in cui una pianta cresce, riveste una fondamentale importanza, alcune cure sono state rivolte al terreno: è stato ammorbidito con una leggera erpicatura e arricchito con la semina delle piante da sovescio, una pratica agronomica consistente nell’interramento di apposite colture allo scopo di mantenere o aumentare la fertilità del terreno. A questo scopo sono stati utilizzati anche i mugnuli (varietà di broccolo locale), che contengono molecole ricche di zolfo e biologicamente attive nei confronti di funghi, batteri e insetti, oltre al favino che, essendo una leguminosa, è in grado di fissare l’azoto atmosferico e trasformarlo in molecole nutritive utili alla pianta. La fertilizzazione del suolo è proseguita preparando e utilizzando su terreno e piante un preparato messo a punto da un agronomo e ricercatore colombiano, Jairo Restrepo Rivera: basicamente composto da letame bovino arricchito con lieviti, i quali sono in grado di trasformare le molecole organiche del letame in molecole più semplici e facilmente assimilabili dalla pianta. In aggiunta ancora boro e zinco, microelementi fondamentali per l’alimentazione delle piante.

VENIAMO AI RISULTATI. Dal punto di vista di Ivano, che si è occupato personalmente della messa in pratica del protocollo, «i risultati sono stati positivi». «Tutte le piante che sono state trattate hanno reagito positivamente, nessuna è peggiorata. Da alcune ci aspettiamo la produzione di olive». Chiaramente 18 mesi, questa la durata del progetto, sono pochissimi per tirare delle conclusioni, ma cominciamo ad avere un’idea di quali sono le cure più efficaci e del complesso di problemi che va affrontato, dalla pianta alla qualità del suolo». Ma queste piante erano solo infettate da Xylella o il disseccamento aveva anche altre cause? Rametti delle piante sono stati campionati dall’Osservatorio Fitosanitario di Locorotondo e analizzate dal Cnr Ipsp di Bari, tutte le piante presentavano il batterio. Ivano ci tiene a precisare che le analisi erano mirate a rilevare solo il batterio e non altri patogeni, e questo è stato un peccato perché dal suo punto di vista l’obiettivo deve essere comprendere quanti e quali altri patogeni concorrono al disseccamento. «Non si tratta di negare Xylella», continua, «ma di tenere conto di tutti gli altri fattori».

SUL FATTO CHE IL TEMPO di sperimentazione sia stato troppo breve concorda anche Saverio Pandolfi, agronomo, collaboratore tecnico dell’Istituto di Bioscienze e Biorisorse del Cnr di Perugia, che ha seguito il progetto. La sua valutazione dal punto di vista scientifico è meno positiva: i risultati ottenuti non consentono di dare ancora nessuna risposta certa. «Il problema è enorme e complesso», dice Pandolfi, «per affrontarlo è necessario proseguire le prove costituendo gruppi di lavoro multidisciplinari». Un dato importante emerso dalle prove svolte si riferisce ai risultati delle analisi sul terreno, le quali hanno rivelato che era poverissimo di sostanza organica e di microrganismi, un suolo paragonabile a quello desertico. Difficile per una pianta difendersi in condizioni così inospitali.

COME VALUTARE QUINDI l’utilizzo dei pesticidi e la sostituzione delle piante malate con varietà resistenti/tolleranti? Bisogna rinunciare alle varietà autoctone e virare verso un modello intensivo e basato sulla chimica di sintesi? «Purtroppo anche questi approcci hanno i loro limiti», risponde il dottor Pandolfi, «i pesticidi possono avere effetto sugli insetti vettori ma non sul batterio e, per quanto riguarda le varietà, mi risulta che quelle individuate siano tolleranti ma non resistenti. Siamo in una situazione veramente complicata».

Siamo ancora in piena emergenza. Il Premier Conte ha appena annunciato un contributo supplementare da 300 milioni di euro alla Puglia, per la soddisfazione del Presidente della Regione Emiliano e delle associazioni degli agricoltori; ci auguriamo che vengano impiegati per interventi frutto di una collaborazione più ampia e di una discussione più distesa di quanto è avvenuto fino a ora.