Il “bagno di sangue” evocato dal ministro Cingolani la scorsa estate, per attaccare la transizione energetica, è stato rilanciato in questi giorni da un altro ministero – il Mise – per la perdita di posti di lavoro legati al diesel. L’azienda di Bari che ha annunciato esuberi è parte di una multinazionale tedesca in realtà in crescita proprio nei settori della transizione. Peccato che investa altrove, e non in Italia.
Questo caso è esemplare di come i ritardi di una parte dell’industria che produce in Italia e quelli di un governo che sulla transizione non hanno ancora fatto vedere nulla di concreto, non favoriscano una riconversione che non aspetta certo le lentezze, o peggio, le resistenze al cambiamento.

È quanto emerge nettamente dalla bozza del “Decreto sostegni”, che colpisce in modo esclusivo le fonti rinnovabili – in cerca degli extraprofitti legati al caro-bollette – dimenticando del tutto i produttori da fonti fossili. L’incursione del Presidente Putin di qualche giorno fa – ha incontrato un gruppo di aziende italiane all’apparente insaputa del Ministero degli Esteri – ha chiarito inoltre che i contratti di fornitura del gas russo prevedono prezzi molto più bassi di quelli del mercato spot, che oggi sono elevatissimi. Quali siano questi prezzi (ad esempio, del contratto Gazprom-Eni) e dunque quali extraprofitti si siano realizzati però non è però dato sapere.

Di queste ore la telefonata tra Draghi e Putin che ha garantito sulle forniture di gas in questa crisi; ma una seria politica pro-rinnovabili dovrebbe invece mirare a ridurle progressivamente.
Ma torniamo al settore dell’auto, con il maggiore player del Paese, Fiat-Stellantis, che fa registrare uno storico ritardo sulla transizione industriale rispetto ai competitor. Il tutto mentre continua ad attaccare la “decisione politica” di Bruxelles di chiudere con le produzioni di auto a benzina e diesel.

Un’analisi della transizione verso l’auto elettrica in Europa elaborata dal Boston Consulting Group mostra come l’occupazione complessiva avrà solo una lieve flessione, riposizionandosi in maniera diversa da come è oggi. In particolare, a creare nuovi posti di lavoro saranno i segmenti delle batterie e delle fonti rinnovabili. Lo sviluppo della mobilità elettrica per avere il massimo effetto di riduzione delle emissioni di gas a effetto serra, deve infatti essere necessariamente alimentato da elettricità verde.

L’Italia – per lentezza della politica e resistenza dei settori fossili – si trova in ritardo su entrambi i settori: da una parte l’industria nazionale è arrivata alla decisione di conversione verso l’elettrico da poco tempo e dall’altra il settore energetico fossile – quello legato al gas soprattutto – è riuscito a bloccare lo sviluppo delle rinnovabili, e dunque anche l’occupazione indotta (“investire in rinnovabili è da ubriachi” tuonava anni fa un alto dirigente dell’industria fossile).

Se dunque l’Italia rischia una perdita netta di posti di lavoro lo deve all’insipienza di una parte della sua classe dirigente – industriale e politica – che non ha mai né creduto né investito nella transizione, pensando di poter solo proteggere l’esistente. E che, per farlo, pensa persino di rilanciare il diesel – dopo una indegna campagna sull’auto elettrica che, falsità, inquinerebbe di più – e continua a difendere il gas, come dimostra la posizione indecorosa del Ministero dell’Economia sulla proposta di Tassonomia verde europea. Tutto questo dopo un inutile blaterare di nucleare promosso anche dal ministro Cingolani, argomento utile a sviare l’attenzione dal vero obiettivo: la resistenza fossile che, oltre a danneggiare l’ambiente, è il maggior rischio per l’occupazione nel medio termine. Un piano per niente lungimirante, contro lavoratrici e lavoratori.

La profezia del ministro Cingolani sembra purtroppo destinata ad auto-avverarsi: è il vero risultato dell’inazione climatica del governo che, paradossalmente, è stato formato proprio per realizzare la transizione. E che, invece, persevera con la Finzione Ecologica.