Uno degli effetti più pervasivi e probabilmente permanenti dell’epoca-Covid nel campo dell’istruzione e della cultura è stato senz’altro il cambiamento repentino dell’atteggiamento verso il digitale. Pochi fenomeni come la lunga chiusura delle biblioteche e l’inaccessibilità del libro cartaceo a fronte della generale e gratuita disponibilità delle biblioteche digitali, hanno creato l’impressione di un mutamento epocale e di un passo definitivo, la scoperta e la comunicazione di una ricchezza enorme a portata di mano eppure finora limitata alla frequentazione di appassionati, addetti ai lavori e fanatici della tecnologia. Quel che è successo qualche mese fa, quando rettori di tutta Italia ingiungevano ai professori di inserire nei loro syllabi solo testi reperibili su internet, e interi anni scolastici e corsi universitari sono stati salvati dalla disponibilità di opere e strumenti online, ha aperto gli occhi anche a chi li teneva socchiusi, magari sormontati da sopraccigli ben arcuati, costantemente in attesa di sviluppi tranquillizzanti e di confortevoli ritorni al papiro e alla pergamena. Ma per tutti i Don Ferrante viene il tempo del disvelamento, anche quando, costretto da un’etimologia inquietante, questo coincide con un’apocalisse. Come diceva cinicamente quel genio di sant’Agostino, foris inveniatur necessitas, nascitur intro voluntas.
Non che i problemi siano risolti: anzi, proprio ora diventano di dominio comune elementi di incertezza e questioni aperte nell’approccio al digitale che finora avevano animato solo il dibattito specialistico. Ne abbiamo una traccia, preterintenzionale rispetto alla rivoluzione post-Covid, in due istruttive raccolte di saggi uscite negli ultimi mesi: Teoria e forme del testo digitale, curato dal filologo italiano Michelangelo Zaccarello (Carocci editore «Studi Superiori», pp. 232, euro 24,00), che offre in ottima traduzione saggi di autori prevalentemente anglosassoni degli anni 1983-2016 noti agli insider ma non al pubblico generale, e Editing Duemila Per una filologia dei testi digitali (Salerno Editrice, pp. 245 indici compresi, euro 21,00) che mette insieme alcuni densi articoli, risalenti al periodo 2014-’19, di Paola Italia, pioniera di applicazioni digitali per lo studio delle stratificazioni linguistiche dei Promessi sposi oltre che promotrice di esperimenti di wiki-edizione dei Canti di Leopardi. In entrambi troviamo formulati e discussi problemi che il trauma delle biblioteche e degli archivi sbarrati può far apparire improvvisamente superati o irrilevanti, o, al contrario, ancora più urgenti perché non più eludibili con un facile richiamo al libro tradizionale.
Un fronte di diffidenza quanto mai esteso è da sempre lo standard di qualità richiesto alle pubblicazioni digitali, il cui sviluppo impetuoso e disinvolto ha portato in pochi anni alla creazione di immense biblioteche, come Google Books, in cui come è noto diventano disponibili in forma ricercabile manoscritti medievali, stampe antiche e libri ottocenteschi, ma anche saggi di studi appena usciti, che i lettori potevano prima trovare solo in biblioteche internazionali ben fornite (e dunque la gran parte degli interessati semplicemente non poteva leggere): tale patrimonio è però reso disponibile al prezzo di una frequente trascuratezza di informazioni di corredo o di imperfezioni del processo di digitalizzazione testuale (specie nei primi anni e in imprese più corrive, come Internet Archive, che però quasi sempre fornisce a riscontro anche la riproduzione fedele in pdf o déja vu). Questa diffidenza si basa abitualmente su un escamotage dialettico banale, la comparazione di oggetti non omogenei (falsa analogia, o apples and oranges fallacy): un testo digitale di tipo divulgativo, con errori, viene confrontato a un testo cartaceo di edizione critica, sperabilmente privo di errori. Se si confrontano oggetti dello stesso tipo (testi digitali non filologici con libri a stampa di massa) il gap si riduce o si annulla (lo sa bene ogni lettore di romanzi economici o di quotidiani cartacei), e se si proporziona la comparazione degli errori alla quantità di testi disponibili e ai lettori raggiungibili, il gap si inverte.
Una dimostrazione famosa si ebbe già nel 2005, quando si verificò che gli articoli scientifici di Wikipedia avevano un livello qualitativo pari o superiore a quelli dell’Encyclopaedia Britannica. Oggi, a distanza di quindici anni, il numero (e la multimedialità) delle informazioni su ogni disciplina che si trovano su Wikipedia è oggettivamente e materialmente irraggiungibile da qualsiasi enciclopedia cartacea. Naturalmente nella quantità si trovano errori, che nella rete diventano rapidamente fonti di fake news involontarie: ma altrettanti se ne trovano nei volumi tradizionali, e sarebbe esercizio facile per ogni specialista di un qualche argomento trovare difetti, disinformazione e soprattutto lacune in qualsiasi voce di qualsiasi enciclopedia cartacea anche prestigiosa, per non parlare dell’enorme quantità di lemmi che sugli strumenti a stampa semplicemente non esistono e dunque rendono il confronto semplicemente improponibile.
Lo stesso si deve riconoscere, al di là di descrizioni addomesticate che si scelgono l’idolo polemico più conveniente, per le edizioni critiche, cioè le ricostruzioni e documentazioni degli originali (o delle forme di testo più vicine agli originali) di un’opera: l’esperienza ormai quotidiana non fa che svelare, a noi nani comodamente seduti sulle spalle dei giganti (e dei data-base), le manchevolezze e le falsificazioni delle edizioni critiche «tradizionali» vecchie e recenti. Un mio recente controllo sui testimoni manoscritti di un poemetto medievale che aveva avuto almeno tre o quattro edizioni critiche a stampa, ha svelato l’esistenza di un sorprendente numero di codici, ignoto o ignorato dagli editori «cartacei», che senza internet sarebbe stato impossibile individuare e che ora fa di quelle edizioni cartacee inaffidabili residui di modernariato.
Il gap diventa drammatico se si confronta l’apparato cosiddetto critico di un’edizione cartacea con la documentazione resa disponibile da una buona edizione digitale (che nei criteri di fatto invalsi deve esibire tutti i testimoni in riproduzione fotografica e trascrizione completa): quante lezioni non segnalate, quanti errori di trascrizione, quanti dati lasciati nei cassetti del filologo, quante scelte discutibili! E il lettore del libro non è messo neppure in condizione di controllarle, perché privo di accesso diretto alla documentazione, che nelle edizioni cartacee abitualmente non viene riprodotta ma solo riassunta (o taciuta) dal curatore. Naturalmente anche online si trovano edizioni fatte male, che comunque sono meglio emendabili proprio grazie alla disponibilità immediata delle fonti: ma la cattiva qualità non è una conseguenza della tecnologia in sé, bensì – come nei libri cartacei – della maggiore o minore accuratezza individuale dello studioso o del livello scelto per l’edizione. Anche in questo caso le critiche fanno leva su un diffuso escamotage della tecnica retorica, la famosa enumeratio imperfecta (ab uno descendet omne, la generalizzazione di esempi di comodo) che tutti usiamo quando siamo a corto di argomenti.
Terzo fra gli strumenti dialettici ingannevoli è la fallacia di correlazione causale (post hoc, ergo propter hoc), che attribuisce al digitale l’ipotetico abbassamento di livello della pratica filologica, dovuta invece a un travolgente cambio di paradigma intellettuale, diventato dogmatico soprattutto nelle filologie nordiche, che considera il documento storico sempre superiore (cioè più affidabile, anche perché materialmente esistente e riscontrabile) rispetto al testo «virtuale» ricostruito da un filologo ogni volta diverso e dunque sempre discutibile, e ritiene l’autore (ma fin da Foucault e Barthes, in èra ampiamente pre-informatica) una aggregazione funzionale più che una personalità biografica.
Per fortuna i libri di Italia e Zaccarello, grazie alla pluralità di voci o alla diffrazione dei tempi di pubblicazione originaria dei singoli capitoli, testimoniano problemi e soluzioni insieme. In Teoria e forme del testo digitale si leggono ad esempio sia il vecchio ma fondamentale (1983) saggio di Jerome McGann sul testo «sociale», sia la sua feroce confutazione recente (2016) da parte di Peter Robinson, uno dei maggiori se non il maggiore editore digitale, cui si devono non solo lavori seminali su Chaucer, Dante, il Vangelo di Giovanni, Le mille e una notte, ma anche l’elaborazione di programmi specifici, come CollateX e la sua versione open source, usati da molte altre imprese filologiche, e di metodi rivoluzionari, come la (discutibile) applicazione dell’analisi «cladistica» (cioè per rami senza radice) di origine biologica agli stemmi, ossia agli alberi genealogici dei testimoni di un’opera.
Nella raccolta di Carocci il capitolo più illuminante è senz’altro la postfazione di H. Wayne Storey, presidente della Society for Textual Scholarhisp: immune da pregiudizi, ricco di dati e insieme di rappresentazioni equilibrate e affidabili della realtà digitale. All’eleganza della sua riflessione dobbiamo, come esempio della resistenza che ogni nuovo medium suscita nelle abitudini degli utenti, la citazione delle esecrazioni di Vincenzo Borghini (1574) contro la stampa del Decamerone, che avrebbe magari fatto meglio a restare manoscritto: «Percioché oltra la lunghezza del tempo, e la trascuraggine d’alcuni stampatori, haveva l’audacia di molti aggiunta (come per lo più suole avvenire, con il poco sapere) la purità, e candidezza di questo autore molto corrotta, e guasta, forse per rendere i libri loro più vendibili al vulgo». Ecc.
La stessa dialettica di pars destruens e construens si instaura nel libro di Paola Italia fra impietose sottolineature dei rischi di Google e dei difetti di alcune edizioni digitali e una lucida palinodia che vale la pena di citare in extenso: «Credo … che la fase delle lamentazioni sulla pericolosità del testo digitale sia ormai trascorsa e che sia più utile passare a una fase più costruttiva, dal momento che non possiamo arrestare la totalizzazione digitale e, anzi, sono convinta che avere assunto una forma di diffidenza e chiusura verso la testualità digitale abbia ritardato la presa di coscienza, a livello generale, sulle responsabilità che abbiamo verso i testi che leggeranno le nuove generazioni, fino al paradosso, che abbiamo già visto, di raffinate edizioni scientifiche che nessuno legge, e di testi spazzatura che proliferano in rete, che i nostri studenti consultano, studiano e citano». Io aggiungerei che i testi-spazzatura proliferano anche a stampa, e non da ora, ma evidentemente non creano altrettanto turbamento perché il raggio di diffusione è minore.
Il problema vero, che entrambi i volumi hanno presente e che Paola Italia affronta con casistica accurata nel cruciale capitolo 4 (Per una filologia di testi digitali), è come assicurare la durata di un patrimonio immateriale così imponente e universale, frutto di investimenti ingenti ma limitati nel tempo. I supporti diventano obsoleti, le codifiche sono provvisorie, inadeguate e mai veramente interoperabili, i siti non vengono curati dopo la conclusione dei progetti, perfino i server e i relativi cloud sono a rischio chiusura nel caso di fallimento delle aziende che li mantengono o rinegoziazione dei contratti. Questa è la minaccia che incombe sulla permanenza di tanto lavoro e di tanti dati. Eppure anche i libri, se esposti alle intemperie o abbandonati in spazi privi di manutenzione, non sopravviverebbero più di qualche mese. Per conservarli sono state create almeno fin dal III secolo a. C. istituzioni, chiamate biblioteche, i cui costi altissimi, in termini di edifici, attrezzature e personale, sono stati considerati dalle società necessari per la custodia del sapere umano. Perché questo non deve valere per le nuove, immense, ormai irrinunciabili mediateche digitali?