Mentre il mondo vacilla sul precipizio di una possibile guerra dei dazi fra Cina e Usa, in sordina un conflitto globale è già esploso: quello della spazzatura. La decisione di Pechino di chiudere dal primo gennaio le frontiere all’importazione di rifiuti ha bloccato l’ingranaggio di un colossale flusso commerciale sommerso legato allo smaltimento e al riciclaggio degli scarti. In questo scenario i paesi sviluppati sono esportatori di milioni di tonnellate di materiali che ogni anno trovano la via dei porti cinesi, verso una gigantesca rete di smaltimento e recupero: carta, metalli, plastica, componenti elettronici.

Lo stop cinese ha gettato nello scompiglio gli equilibri di un’economia globale che permetteva ai paesi consumisti, massimi produttori di rifiuti, non solo di rimuovere in parte il problema dello smaltimento, ma di commercializzare i rifiuti vendendoli ai cinesi. La decisione era già stata comunicata da Pechino al Wto oltre un anno fa, ma la formalizzazione ha gettato comunque nel caos molti paesi e municipalità europee e americane che, in assenza si alternative, si trovano di fronte all’accumulo di un mastodontico inventario di spazzatura.

Il mese scorso gli Stati Uniti hanno formalmente chiesto alla Cina di sollevare l’embargo. Arnaud Brunet, direttore del Bir (Bureau of International Recycling), che rappresenta 760 aziende mondiali di settore, ha definito la decisione cinese «un terremoto». Liu Hua, responsabile del settore plastiche per l’est asiatico di Greenpeace, ha affermato di prevedere «onde d’urto» in tutto il mondo. Così è puntualmente stato. L’Irlanda, che inviava in Cina il 95 per cento delle proprie plastiche di scarto, ha avvertito di una prossima emergenza se non si troveranno destinazioni alternative. Ma i cinesi non mostrano alcuna intenzione di cambiare idea. L’11 aprile scorso ispettori del porto di Hangzhou hanno bloccato 469 tonnellate di materiali riciclabili solidi – carta, ferrivecchi e bottiglie esauste – e li hanno rispediti ai mittenti americani.

La ragione ufficiale per la chiusura è la contaminazione degli scarti, che vengono venduti differenziati ma inevitabilmente contengono tracce di materiali non riciclabili o sporchi. Le nuove regole impongono una soglia di contaminazione inferiore allo 0,3 per cento, che lo stesso Bir ritiene impossibile rispettare. La verità è che la Cina ha deciso di non voler più fungere da pattumiera del mondo, adducendo danni ambientali insostenibili. Per oltre venti anni la Cina ha assorbito rifiuti riciclabili dalle nazioni industrializzate. Nel 2016 metalli, plastiche e carta di scarto transitate dai porti cinesi sono ammontati complessivamente a 45 milioni di tonnellate. I soli Stati Uniti quell’anno hanno spedito in Cina 16 milioni di tonnellate di scarti, per un valore di 5,2 milioni di dollari, l’Inghilterra ne ha esportato un volume equivalente a 10 mila piscine olimpioniche. In tutto, il 50 per cento dei rifiuti riciclabili mondiali sono finiti in Cina. Il fiume di rifiuti sottratti alle già oberate discariche occidentali (ma anche giapponesi e coreane) è confluito nel grande boom cinese, affamato di materie prime per alimentare la crescita verticale di produzione, manifattura e costruzione degli ultimi due decenni. Solo in Cina, infatti, grazie ai costi stracciati della mano d’opera, era economicamente pratico il lavoro di selezione e recupero necessario a riutilizzare le materie (le bobine di rame, ad esempio, contenute nei motori elettrici). Dagli anni ’80 il riciclaggio dei rifiuti è costantemente cresciuto, fino a diventare un comparto del valore di centinaia di miliardi di dollari all’anno. «Fino al 2008 almeno», ha affermato all’Huffington Post Adam Minter, autore del fondamentale Junkyard Planet: Travels in the Billion-Dollar Trash Trade, «la Cina aveva disperatamente bisogno della materia prima recuperata dagli scarti». Dal canto loro le economie dell’iperconsumo avevano disperato bisogno di collocare altrove i rifiuti riciclabili. Una simbiosi perfetta, sostenuta però da una realtà nascosta fatta di migliaia di operazioni famigliari di riciclaggio, micro aziende dedite a rastrellare i container di scarti del consumismo occidentale per recuperarne i materiali da destinare alla produzione di nuovi beni di consumo da rispedire ai mittenti.

In teoria una prassi virtuosa di economia circolare, ma in realtà al prezzo di un’enorme costo umano. L’anno scorso è stato proiettato al festival Sundance Plastic China (https://www.plasticchina.org/) straordinario e doloroso documentario. Il regista Jiu-Liang Wang ha passato più di un anno con una famiglia, nella provincia dello Shandong, la cui casa (come altre cinquemila nella zona) è trasformata in discarica domestica di plastiche esauste. Il titolare e la sua famiglia, compresi figli suoi e quelli di una famiglia impiegata come operai, vivono letteralmente nei rifiuti che continuano ininterrottamente ad arrivare in container dall’occidente. Si lavano in pozze stagnanti in cui viene ripulita l’immondizia, nell’olezzo e nel pulviscolo tossico prodotto dai rudimentari macchinari dell’officina famigliare che produce una pasta di plastica e infine pellets che vengono rivenduti per un pugno di dollari al giorno. Le donne cucinano su fuochi alimentati da sacchetti di plastica dei nostri supermercati, mentre i bambini piccoli razzolano nei cumuli di rifiuti ritagliando dai frammenti di riviste le foto pubblicitarie di oggetti di consumo e corpulenti turisti occidentali su navi da crociera, scintillanti totem di una ricchezza remota e aliena – o raccolgono pesci morti da pozze inquinate da cucinare. Censurato e ritirato da internet in Cina, il documentario ha fatto scalpore e messo in luce l’effetto concreto del traffico di rifiuti prodotto dall’irrefrenabile consumo occidentale – quello in particolare della plastica, che sta strangolando sempre più evidentemente l’ambiente globale e soprattutto i mari del pianeta, vicini al punto del non ritorno anche per effetto delle microfibre plastiche, impossibili da degradare e ormai endemiche nella filiera alimentare. Un film che ha insomma ben illustrato il costo umano dell’oblio occidentale e a cui alcuni imputano ora in parte le decisione cinese.
Già nel 2013 il governo di Pechino aveva lanciato l’operazione «recinto verde» per potenziare l’ispezione delle navi container ed arginare l’import dei rifiuti di bassa qualità. Un anno fa aveva fatto seguito con l’iniziativa detta «spada nazionale» per contrastare le spedizioni illegali di scarti industriali ed elettronici. Infine il blocco di quest’anno, motivato dalle «grandi quantità di rifiuti sporchi o tossici» presenti nei materiali riciclabili e «nocivi per l’ambiente cinese». A fronte delle proteste occidentali, questo mese Zhang Ming, ambasciatore cinese presso l’Unione europea, ha scritto di trovare «sorprendenti» le rimostranze di molti esportatori, ricordando che la convenzione di Basilea sui movimenti transnazionali di rifiuti permette ad ogni stato sovrano di regolarne l’importazione e definendo «una questione morale» la consuetudine dei paesi sviluppati di spedire la propria spazzatura in quelli in via di sviluppo. «In qualsiasi civiltà», si legge nell’articolo, riportato dall’agenzia Xinhua, «è moralmente inaccettabile gettare la propria immondizia nel giardino del vicino». «Per gli esportatori che ora piangono e si lamentano», conclude duramente Zhang, «non è consigliabile pretendere troppo, come bambini viziati che non si curano dei bisogni altrui…».

È vero che per necessità e interesse il governo cinese ha accettato finora i termini dell’affare, ma il tono della risposta segnala una svolta decisa, legata anche alla radicale evoluzione dell’economia cinese da fabbrica del mondo al consumo interno proprio di un mercato maturo. Mentre i costi di produzione non sono più bassi come una volta, il paese produce ora da sé rifiuti più che sufficienti. Con la continuata crescita economica il riciclaggio di rifiuti importati è sempre meno vantaggioso oltre che fonte costante di inquinamento, la cui diminuzione è uno dei cardini della nuova politica di Xi Jinping.
Rimane poi la fondamentale verità contenuta nelle parole dell’ambasciatore: l’occidente deve fare di più per contenere livelli insostenibili di spreco. I rifiuti umani sono gli unici senza uso nel sistema rigenerativo naturale e quelli legati agli attuali livelli di consumo nei paesi ricchi – categoria destinata ad aumentare sensibilmente con la crescita delle classi medie cinesi ed indiane – sono ormai oltre i livelli di guardia.

Si sta insomma incrinando il patto decennale che prevedeva il flusso di scarti e rifiuti da occidente verso nazioni in via di sviluppo. Con la chiusura della Cina, parte di questi troveranno presumibilmente la via di altri lidi: India, Vietnam, Thailandia, Malesia – ognuno semplicemente un altro gradino in un occultamento solo illusorio di detriti destinati invece ad accumularsi sempre più nell’ecosistema del nostro pianeta.Con la chiusura della Cina, parte di questi troveranno presumibilmente la via di altri lidi: India, Vietnam, Thailandia, Malesia – ognuno semplicemente un altro gradino in un occultamento solo illusorio di detriti destinati invece ad accumularsi sempre più nell’ecosistema del nostro pianeta. L’unica via per combattere davvero il pericoloso degrado ecologico è il riutilizzo e soprattutto la riduzione. Fino ad allora sarà bene essere consapevoli che quei riciclabili che separiamo ogni giorno attentamente nella differenziata andranno molto probabilmente a riempire comunque le discariche.