Uber è un’azienda di trasporto e non una digitale. Lo ha ribadito ieri la Corte di Giustizia Europea in una sentenza che ha dato ragione alla Francia e torto alla piattaforma digitale, in coerenza con un’altra sentenza del dicembre 2017 che ha dato ragione a un’azienda di trasporto privato spagnola. «Gli Stati membri possono proibire e punire, come materia di diritto penale, l’esercizio illegale di attività di trasporto nel contesto del servizio UberPop, senza informare la Commissione in anticipo» ha inoltre stabilito l’Alta Corte.

L’oggetto del ricorso era UberPop, un’app che permette a chiunque abbia una patente e un’auto di trasformarsi in tassista e trasportare un passeggero. L’interesse della sentenza è il seguente: la confusione tra servizio di trasporto e connessione digitale permette all’«unicorno» Usa di svicolare tra le maglie delle leggi che regolano la fiscalità e la concessione delle licenze, praticando di fatto una concorrenza sleale contro i monopoli del trasporto privato di linea, le cooperative dei tassisti. Su questa base si innesta la mancata distinzione tra lavoratore dipendente e autonomo per quanto riguarda gli autisti. Uber – come le aziende di food delivery con i «rider» – li considera «freelance», e i costi di un’attività eterodiretta attraverso gli algoritmi sono a carico del lavoratore. Su questa materia la giurisprudenza, anche europea, è ampia. Fare pagare per lavorare, e non pagare il lavoro anche freelance, è la regola del pluslavoro assoluto estratto dal capitale digitale.

Uber sostiene di essere un fornitore di servizi digitali che collegano i consumatori con i conducenti in oltre 600 città. «Il caso francese riguarda i servizi peer-to-peer (ad opera di autisti non professionisti) sospesi nel 2015. «Per noi è opportuno regolamentare servizi come Uber e per questo continueremo a dialogare con le citta’ in tutta Europa».

Lettera pubblicata sul manifesto del 18 aprile 2018

Il 10 aprile la Corte di Giustizia Europea ha emesso una sentenza contraria a UberPop.

Nell’informarne i lettori sul manifesto dell’11 aprile, Roberto Ciccarelli (ro.ci.) scrive che la multinazionale americana sfrutta la confusione tra servizi di trasporto e connessione digitale, praticando «di fatto una concorrenza sleale contro i monopoli del trasporto privato di linea, le cooperative dei tassisti». Ci permettiamo di correggere quest’ultima affermazione.

Il taxi è infatti definito dalla legge 21/92 come «autoservizio pubblico non di linea». Inoltre, secondo la teoria classica, il monopolista è in grado di fissare prezzo e condizioni dell’offerta sul mercato.

I tassisti non sono monopolisti, perché esercitano un servizio pubblico con i connessi obblighi tariffari e di servizio fissati dall’Amministrazione.

È però vero, come scrive Ciccarelli, che Uber esercita una concorrenza sleale contro i taxi, sanzionata da ormai vari giudici nel mondo e denunciata ancora lunedì scorso dai tassisti milanesi, in presidio per sollecitare la giunta Sala a tutelare lavoratori e utenti del trasporto pubblico.

Marco Marani, Unica taxi filt Cgil Milano

La replica dell’autore

Ha ragione Marani a ricordare che i tassisti non rappresentano, in termini di legge e di teoria, un «monopolio». Lo sono tuttavia per Uber che, come le altre piattaforme del capitalismo digitale, cerca di esercitare una funzione «distruttiva» nel campo dei servizi tradizionali, l’«autoservizio pubblico non di linea» in questo caso.

Il suo obiettivo è imporre il passaggio da un mercato regolato a uno deregolamentato basato sui sistemi di valutazione in nome della «concorrenza».

L’operazione, al momento, non risulta particolarmente efficace in Europa, nel Regno Unito o in Italia, come dimostra anche la sentenza Ue oggetto dell’articolo.

Sarà interessante valutare l’impatto diverso di altri modelli di «app economy» sul mercato e sul lavoro da tassista di modelli come quello «my taxi» affiliato a moovel GmbH della Daimler.

ro.ci.